Yes – Close to the Edge

Dopo il successo di Fragile che si infiltrò inaspettatamente nella top 10 del Regno Unito, nell’aprile del 1972 la band entrò negli Advision Studios di Londra per registrare Close to the Edge, edito nel settembre dello stesso anno per la Atlantic nella bella copertina minimalista di Roger Dean, in cui vi è il primo utilizzo del famigerato morbido logo della band, con all’interno un’immensa cascata surrealista. Questo quinto album è di per sé uno degli archetipi della musica progressive, il più emblematico esempio di Yessound di prima fattura, dove vi è anche spazio per vari spunti solistici all’interno delle tre imponenti suite; la formazione è la stessa del precedente album e comprende: il timido ma potente Jon Anderson (voce), il motore ritmico infuocato composto da Chris Squire (basso) e Bill Bruford (batteria), il multiforme e tagliente Steve Howe (chitarra) e l’illuminato classicista Rick Wakeman (tastiere)

I testi vennero influenzati da temi mistici e religiosi al cantante Jon Anderson (tematiche che sarebbero poi state ulteriormente sviluppate nel concept-album Tales from the Topographic Oceans) mentre la maestosità imperiale di questo lavoro era chiara fin dall’inizio, anche per gli stessi Yes, con Bill Bruford che abbandonerà di lì a poco il gruppo motivato, oltre che dall’offerta di unirsi ai King Crimson, anche dalla sua convinzione che dopo Close to the Edge gli Yes non avrebbero potuto che ripetersi manieristicamente o cadere nell’oblio.

La brillante title-track “Close To The812K3g8pTwL._SL600_ Edge” si dipana per oltre 18 minuti, con il lato spirituale di Jon Anderson che emerge in superficie in una composizione liricamente ispirata dal libro “Siddharta” di Hermann Hesse, che descrive ermeticamente il risveglio spirituale del protagonista  “accanto al bordo” di un fiume. Questo opus magnum consta di quattro sezioni accattivanti: si apre con “The Solid Time of Change” inizialmente immersa nel silenzio, con la conseguente costruzione del suono ad opera di una tastiera frizzante correlata ai suoni pacifici della natura, che entrano in colluttazione con l’intensa lotta della vita e degli strumenti a seguire; dopo un paio di minuti, Jon Anderson introduce una lunga parte vocale, ispirata alle storie narrate dal libro di HesseIl passaggio dalla prima sezione alla seconda, “Total Mass Retain“, avviene senza intoppi, proseguendo inizialmente con la stessa melodia del movimento iniziale prima di sfociare in un tratto più sincopato, nel quale si ripete tuttavia lo stesso ritornello; alla fine, Jon Anderson pronuncia quelle che saranno le parole principali del testo nella sezione successiva: I Get Up. I Get Down“, dando il via alla terza parte dove si aggiungono i cori di Squire e Howe in un crescendo che culmina con il maestoso incedere di un organo, intento in una rappresaglia sonora con la voce di Anderson per poi svanire tra i suoni della natura. L’esperienza mistica si sposta infine nella conclusiva “Seasons of Man“, dove tutta la musica e la linea vocale si spalmano in modo coeso per creare il climax finale, in cui tutto sfuma infine con la ripetizione del tema vocale caratteristico del terzo movimento (anche se con tempi ed intonazioni diverse) e con i suoni eterei della parte iniziale del brano. Jon Anderson è un grande appassionato della storia delle istituzioni religiose ed in questo testo lancia alcune accuse non proprio leggere (“Two million people barely satisfy. Two hundred women watch one woman cry, too late.The eyes of honesty can achieve. How many millions do we deceive each day?“) mentre dal punto di vista strumentale, quando entra l’organo della chiesa esso viene subito sostituito da un sintetizzatore Moog, a dimostrazione del fatto che si può solo voltare le spalle alle istituzioni clericali per trovare dentro di sè il proprio intimo tempio (questa è stata l’interpretazione data dal cantante).

La bollente “And You And I” viene battezzata acusticamente da Howe con la chitarra a 12 corde, prima di farsi raggiungere da Squire ed il suo basso Rickenbacker fra varie percussioni, in quello che è uno degli intro migliori di tutta la musica progressive; anche questa seconda traccia si compone di quattro sezioni ma, rispetto alla suite d’apertura, risulta piuttosto morbida e presenta variazioni relativamente minori: si inizia con una splendida chitarra accompagnata dalla voce delicata di Anderson in “Cord of Life“, una prima sezione lirica dove la musica scorre senza troppi intoppi. Il secondo movimento, “Eclipse“, è relativamente breve e termina con una chitarra acustica che ricalca l’introduzione del brano ed un assolo di tastiera che segna l’inizio della terza sezione, “The Preacher The Teacher“, in cui Wakeman dimostra tutta la sua bravura accompagnato dalle percussioni di Bruford verso la pura estasi della conclusiva Apocalypse“. Una curiosità: dopo molte interpretazioni date allo “you” del titolo, Anderson chiarì che intendeva riferirsi a Dio. 

Siberian Khatru” è un altro piccolo gioiello che offre un’atmosfera funky canalizzata in un’introduzione davvero esplosiva, meravigliosa vetrina anche per le armonie vocali del gruppo. I testi sembrano più orientati ad evocare immagini, piuttosto che raccontare una storia, e gli strumenti coinvolti sono molto vari: tamburi tradizionali, basso, chitarra, tastiere, sprazzi di clavicembalo e sitar elettrico; anche in questo caso il lavoro di Rick Wakeman è eccezionale, tra passaggi barocchi ed intermezzi esplosivi in cui Steve Howe pare prendere il sopravvento: questi cambiamenti improvvisi sono ripetuti più volte per mantenere la dinamica della canzone, mentre la conclusione riprende infine il tema strumentale iniziale (uno stratagemma comune negli Yes). Il testo concerne l’unione tra diverse culture e lo stesso Jon Anderson, autore del testo, diede diversi significati alla parola “Khatru”, sostenendo che essa alludesse all’inverno ma che fosse anche traducibile in “come vuoi” nell’ebraico yemenita, a sottolineare il suo universale significato.

Se non si può considerare Close to the Edge impeccabile è solo perché, a mio modesto parere, con solo tre canzoni è difficile fare qualcosa di platealmente sbagliato; il contesto in cui questo album fu edito è dei più fervidi, ma questo disco innovativo non impallidisce affatto rispetto ai suoi contemporanei, emergendo da allora fino ad oggi come uno degli album più belli di tutta la scena progressive inglese. Nel 1974 con Tales from the Topographic Oceans gli Yes hanno semplicemente oltrepassato il limite, paradossalmente segnato da Close to the Edge (“vicino al bordo”), sperperando i pochi momenti ispirati in un eccesso che fece dire un unanime “no” ai nuovi Yes: il subentrato batterista Alan White non poteva tenere il passo con l’intensità di Bill Bruford mentre, come quest’ultimo, anche Rick Wakeman fu così deluso dalla nuova piega che abbandonò la band dopo il completamento dell’album.

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