The Pop Group – Y

I The Pop Group si conobbero ad un concerto dei Sex Pistols a Bristol e, folgorati dall’evento, il vocalist Mark Stewart, il polistrumentista Gareth Sager, il chitarrista John Waddington, il batterista Bruce Smith ed il bassista Simon Underwood decisero di formare un proprio gruppo che, a dispetto del nome, di pop non aveva proprio nulla: il quintetto voleva osannare il rock come “una celebrazione della consapevolezza” e per farlo si impadronì di un funk vestito e nutrito di poesia beat, romanticismo francese, primitivismo, avanguardie dada ed influenze dub e jazz. Quando la band entró per la prima volta sulla scena musicale alla fine del 1978, venne salutato dalla stampa britannica come uno dei salvatori del rock and roll grazie al singolo di debutto “She Is Beyond Good Antumblr_inline_mtsva0UaA41rx72v5d Evil”, un pezzo ribollente di aggressivo funk/punk che richiede una particolare attenzione d’ascolto e che vede i valori occidentali messi prepotentemente alle strette. Pochi mesi più tardi era pronto il primo album in studio rilasciato per la Radar Records, Y, quasi un trattato politico, un esercizio di filosofia, un potente “j’accuse” zolaniano già espresso dal suo interrogativo titolo: Why?. E la risposta la si trova proprio nella fotografia aborigena (scattata da Don McCullin in un raduno africano) posta in netto contrasto alla società occidentale di Margaret Thatcher, fatta di menzogne e disuguaglianze, con una “y” scritta col sangue ed il nome del gruppo spalmato infantilmente sul lato della copertina, che serve solo a rafforzare la giustapposizione inquietante della grafica. 

L’album inizia con la vulcanica “Thief of Fire“, dove troviamo il gruppo al suo meglio, nascosto in una trincea da cui partono colpi di funk dal basso di Simon Underwood e mine esplosive della chitarra di John Waddington e dal sax di Gareth Sager, mentre Mark Stewart grida laconico “I’m a thief of fire” citando la definizione del poeta come “ladro di fuoco” di Arthur Rimbaud. La successiva traccia è la più calma Snowgirl“, abrasiva solo nel suo rifiuto di stabilirsi in una sola direzione, il cui Stewart canta come un Frank Sinatra sotto allucinogeni guidato dal pianoforte, prima che la melodia si trasformi impulsivamente in un caos preistorico e depravato. La sanguinosa Blood Money” è invece essenzialmente un pezzo di musica concreta, una tessitura inquietanti di feedback e rumori sulfurei, mentre Stewart ci ricorda che: “Even if it makes no sense, an order is an order” (“anche se non ha senso, un ordine è un ordine”) cantando torturato quasi quanto Damo Suzuki dei Can, sopra un tracollo strumentale che dà il via ad una miscela veramente bizzarra di percussioni tribali. Parte meno complessa la seguente Savage Sea“, dandoci l’illusione di un pezzo ambient, ma poi il pianoforte rompe ogni sorta di armonia, tra riverberi lontani, striscianti violini e chitarre fortemente distorte, anche se c’è sempre qualcosa che ci tiene saldi a terra, ed è la stessa chitarra che pervade We Are Time” istituendo un solido groove che non si lascia andare mai troppo a fondo.

 Il lato B si compone di un obnubilante dub che sembra guardare avanti al lavoro pionieristico del gruppo di Mark Stewart degli anni Ottanta (i The Maffia): si ricomincia con la sensoriale Words Disobey Me“, un altro pezzo selvaggiamente sperimentale, che affiora a galla con forti connotati funk, con l’egemonia tetra della chitarra che pare volere rendere il brano un torbido film noir. Il rutto oscillante del sax che introduce Don’t Call Me Pain” si converte piuttosto rapidamente in un profanato free-jazz ma, d’altronde, ci ricorda ancora Stewart che “questa è l’epoca del caso” (“This is the age of chance“), sostenuto com’è dai tempi stretti della sezione ritmica e dal sax che suona come se si trovasse in un labirintico bazar, il ché è probabilmente l’uso più efficace del disorientamento sonoro per sottolineare un messaggio antimperialista, mentre in “The Boys From Brazil il sax di Sager ricorda quasi lo stile di Chris Wood dei Traffic, mentre Underwood suona ripetutamente un grande riff di basso con le chitarre che si scontrano ardentemente tra di loro. Il disco si conclude con il canto funebre ridotto di Don’t Sell Your Dreams” che discende come un meteorite, per  poi schiantarsi con veemenza al suolo quando i membri della band cominciano a suonare un ritmo incredibilmente lento, come se si trovassero “al di là del bene e del male“, per dirla alla Nietzsche, da dove Stewart canta attonito sull’orlo del collasso. La batteria ed il basso cercano di svegliare qualcosa, ma non succede mai, così un’inerzia banale diventa una dichiarazione apocalittica accompagnata da un sagace suggerimento finale: “Don’t live in somebody else’s dream“. Non vivere nei sogni di qualcun’altro… Un ottimo consiglio. 

Dopo aver pubblicato Y, i The Pop Group uscirono nel 1980 con For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, un album interessante ma non buono come il disco d’esordio e difatti il gruppo si sciolse nel 1981, scheggiandosi in vari progetti come i Rip, Rig & Panic, i New Age Steppers e soprattutto Mark Stewart & The Maffia, dove il vocalist riaccese la fiamma originale dei The Pop Group. 
Y è il luogo migliore per iniziare a conoscere la musica di Mark Stewart & Co. e, a mio parere, è uno dei dischi più originali e stimolanti mai realizzati: anche se grezzo
 come qualsiasi album post-punk del tempo, c’è un calore cocente che riecheggia quasi gli insegnamenti di Phil Spector e del suo Wall of Sound; se vi piace mettervi in discussione, o anche sentirvi lievemente a disagio, questo disco è un must-have: dategli tre o quattro ascolti ed anche i momenti più bui cominceranno a brillare. 

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