Robert Wyatt – The End of an Ear

Due personaggi albergano nell’Olimpo sonoro della mia mente: FRANK ZAPPA e, appunto, ROBERT WYATT.

E’ una storia lunga, quindi perdonatemi se sarò prolissa. Ed emozionata. Ma è un’avventura che vale la pena di essere ascoltata.

Tutto cominciò a Canterbury, la splendida cittadina del Kent nota soprattutto per la sua cattedrale: a casa di quest’uomo, allora adolescente, iniziò il primo capitolo di quella che sarebbe passata alla storia come “la scena di Canterbury“, un movimento culturale che gli stessi protagonisti ancora oggi non hanno ufficializzato; nella residenza vittoriana della famiglia Wyatt-Ellidge (la Wellington House) a metà degli anni Sessanta si formò un piccolo cenacolo di letteratura, poesia e musica jazz. Tra i personaggi fissi di questa confraternita psichedelica figuravano, oltre al sedicenne Robert, i fratelli Hopper, i cugini Sinclair, Pye Hastings ed il suo “momentaneo cognato” Kevin Ayers. Per un certo periodo “a due penny a settimana” soggiornò anche Daevid Allen col quale, all’inizio del 1963, Robert Wyatt e Hugh Hopper andarono a coabitare in un monolocale londinese: nella primavera dello stesso anno i tre formarono i Daevid Allen Trio, coniugando la poesia al jazz. Un certo George Niedorf, un americano squattrinato, impartì lezioni di batteria al giovane Robert per pagarsi l’affitto e, dopo quelle sporadiche di papà George, queste furono le uniche lezioni di musica che prese Wyatt in tutta la sua carriera.

Rimasti a Canterbury, nel frattempo Brian e Hugh Hopper avevano formato un gruppo di “beat contemporaneo” a cui nel 1964 si unirono Kevin Ayers, Robert Wyatt e Richard Sinclair: è il primo nucleo dei Wilde Flowers, una band dalla formazione instabile di cui nessuno pressochè si accorse all’epoca, ma da cui discenderanno tutti i gruppi di questa favolosa scena-non-scena; unica testimonianza di questa effimera avventura è un disco intitolato Tales of Canterbury – The Wilde Flowers Story (1994 Voiceprint), una raccolta di brani registrati da Brian Hopper in vari momenti fra il 1965 ed il 1969.

Daevid Allen nel 1966 si trovava invece nella filiale canterburiana di Deiá (Maiorca) e aveva da poco fondato un altro gruppo con Ayers e Wyatt, i Mister Head, quando Lady June (una eccentrica pittrice e musicista) gli presentò Wes Brunson, uno stravagante americano con la smania di usare il rock per diffondere gli ideali di una Nuova Era: è con i suoi dollari che la band si trasferisce nuovamente a Londra, nella casa di Robert a Dalmore Street, e dopo un paio di esibizioni col nome – veramente pacchiano! – di Bishops of Canterbury, finalmente trovarono la loro sigla definitiva, battezzandosi in Soft Machine (in omaggio a “La macchina morbida” di William Burroughs). Saranno proprio loro il gruppo di diamante della scena di Canterbury, con le inclinazioni jazziste del batterista Robert Wyatt mitigate dal pop del bassista Kevin Ayers, e le stravaganze di Daevid Allen ricomposte dal classicismo del tastierista Mike Ratledge. Il resto è storia, con Daevid Allen rimasto alla frontiera francese che si rifà una carriera coi Gong e la compagna Gilli Smyth, Kevin Ayers in crisi di identità dopo i tour con Hendrix che si ritira nelle Baleari, Hugh Hopper che viene promosso da rodie a bassista e, appunto, Robert Wyatt che perde interesse per la musica del gruppo, fonda i Matching Mole (storpiatura inglesizzata dalla traduzione francese – “machine molle” – di Soft Machine) e poi trova sfogo in una prolifica carriera solista che neanche l’incidente riuscirà a macchiare. Orfana dei suoi padri, la macchina ormai molle dei Soft Machine si scioglierà in un manierismo di pregevole fattura, ma senza più spunti solidi.

Mentre Third (CBS, 1970) stava inaspettatamente salendo le classiche, Robert Wyatt entró in studio per il suo primo album solista: The End of an Ear (Columbia) fu la prima testimonianza incisa della tensione interna al gruppo “che lo stava rendendo così misero“; su questo disco autoprodotto, Robert arrivó finalmente ad esercitare la sua voce quanto gli piaceva: la “fine dRobert_Wyatt_-_The_End_of_an_Earell’orecchio” coincide infatti con l’ascesa della “bocca”,  ed il fatto che sulle note di copertina elenchi proprio questa nel suo portfolio di strumenti musicali, presentandosi come “fuori dal lavoro un cantante pop, attualmente batterista per i Soft Machine” è un rimprovero diretto e virale ai signori Ratledge e Hopper. In queste righe, Robert parla invece con molta ammirazione degli avanguardisti jazz come Chris McGregor, Keith Tippet e dell’amico Gary Windo. La provocazione ha inizio, con uno schema assomigliante guarda caso a quello di “Moon in June“, l’infinita suite di Wyatt che scuote Third (e che i compagni non apprezzavano particolarmente).

Nella formazione oltre a Wyatt (batteria, pianoforte, organo… bocca), troviamo Neville Whitehaed (basso), Mark Charig (cornetta), Elton Dean (sax), Mark Ellidge (pianoforte), Cyrille Ayers (percussioni) e David Sinclair (organo).

L’opener “Las Vegas Tango Part 1 (Repeat) è una ripresa della canzone di Gil Evans (arrangiatore di molti album di Miles Davis, tra gli altri) in una composizione con rumori bizzarri accompagnati da un’abbondanza di percussioni e suoni assortiti che vanno e vengono, come pianoforte, sax e cornetta. Non si tratta tanto di una cover quanto, piuttosto, di una decostruzione radicale in cui Wyatt usa la sua voce cromata come un altro strumento e si auto-accompagna con batteria e tastiere: una maestosa aria di bravura, tra le più straordinarie del progressive inglese… ma non è di facile assimilazione, bisogna dirlo.
To Mark Everywhere” è un breve omaggio a suo fratello Mark (nda: Ellidge, qui presente – Wyatt è infatti il cognome materno), un brano guidato da un ritmo ottuso che finisce in sussurri spaziali e che suona vagamente simile al tema di “Uncle Meat” di Frank Zappa, mentre To Saintly Bridget è una traccia dedicata alla cantante folk Bridget St. John (che suonerà anche con Oldfield e Ayers) con il cornettista Mark Charig ed il sassofonista Elton Dean in un connubio insolito di fiati ed una grande linea di basso. Alcuni sax dissonanti ed in netto ritardo si fondono con To Oz Alian Daevid and Gilly: qui, invece, la dedica è evidente – per la coppia di “stranieri” dei Gong, in un free jazz espressionista che suona alquanto gonghiano.
La caustica “To Nick Everyone pare una mite provocazione verso Nick Evans, con cui Robert aveva suonato nei Soft Machine: si apre con Wyatt che sembra dettare un ritmo casuale sui tamburi, mentre il sax entra, saluta, e se ne va continuamente, allontanandosi anni luce dalla geometricità dei Soft Machine. D’altro canto, la deliziosa “To Caravan and Brother Jim” è un dolce omaggio ai Caravan e al “fratello Jim” (Hastings), e dimostra di essere la traccia più convenzionale di questo repertorio, un breve congedo dal viaggio estenuante nel cervello di Wyatt: il ritmo dettato da quest’ultimo ha qui una qualità ipnotica che consente al pianoforte di emergere come una mitragliatrice, mentre l‘organo di Sinclair funge da ambasciatore malinconico, rendendo il pezzo più accessibile e strutturato. La successiva To the Old World (Thank You for the Use of Your Body, Goodbye) ha un’aria squisitamente ambient, con un lavoro bizzarro della sezione ritmicain una peculiare dedica a Kevin Ayers e i suoi Whole World, in cui non vi è nessuna melodia ma solo autentico strumentalismo.
La triplice “To Carla Marsha and Caroline (For Making Everything Beautifuller) si riferisce alla pianista e compositrice Carla Bley (che ha collaborato con Wyatt e i Pink Floyd), alla cantante e attrice americana Marsha Hunt (moglie di Mike Ratledge) e alla giornalista ed attivista politica Caroline Coon (sua ex, che ha ispirato anche la canzone “O Caroline” dei Matching Mole). Questa traccia, che sarà poi anche rielaborata in “Instant Pussy” nel primo album dei Matching Mole, si eleva su un’atmosfera minimalista in cui un pragmatico lavoro di tastiere (piano e organo) tenta di farci stare coi piedi per terra, lottando con una sezione ritmica surreale, che detona infine nella botta finale di “Las Vegas Tango Part 1” dove Robert non solo corrisponde la follia della prima versione, ma anche la supera: la vendetta di essere stato messo a tacere coi Soft Machine può dirsi portata a compimento.

Il 1 giugno 1973, durante la festa di compleanno londinese della già citata Lady June, Robert Wyatt cadde dalla finestra del quarto piano “rovinando la festa a tutti” e rimanendo paralizzato dalla vita in giù (le cause, sostenne in seguito, furono: “il vino, il whiskey, il Southern Confort e la finestra aperta”. In quest’ordine). Passò oltre sei mesi in ospedale, e all’uscita si trovò costretto a reinventarsi una carriera: non potendo più suonare la batteria ripiegò sulla tastiera, riscoprendo ulteriormente la sua voce come strumento; si dedicó inoltre alla promozione di giovani talenti e all’attivismo politico, mai impermeabile verso le sofferenze altrui e sempre con grande forza di coscienza – tutto questo, sotto un’unica costante universale: l’amore della sua vita – l’attrice e poeta Alfreda Benge, che gli rimase sempre accanto.

Questo album segna l’inizio di una carriera solista che raggiungerà indubbiamente l’apice con Rock Bottom nel 1974 ma che negli anni continuerà a creare piccoli gioielli (vedasi anche Schleep, del più recente 1997). Un grande personaggio dell’ombra, che passò dalla società degli anni Sessanta in cui tutto pareva possibile – e forse lo era – ai tiepidi e poco entusiasmanti giorni nostri dove “they say the working class is dead, we’re all consumers now“… Signore e signori, l’indistruttibile Robert Wyatt!!

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