Robert Wyatt – Shleep

Se si dovesse sintetizzare Shleep in due parole si potrebbe ricapitolarlo come il lieto fine di Robert Wyatt, anche se parlare di epiloghi non avrebbe senso perchè l’ex Soft Machine si è ritirato dalla musica soltanto un anno fa. Adesso proverò a spiegarvi i motivi di questa mia azzardata definizione, ma prima mi piacerebbe accendere il lume di una riflessione:

Come penso capiti a molte persone, quando assisto ad un telegiornale lo guardo sempre con un pizzico di sospetto mischiato ad un prurito rabbioso pronto ad assalirmi: così, poche sere fa, mentre stavo leggendo la biografia di Robert Wyatt, il mio padiglione auricolare sentiva in lontananza farfugliare qualcosa riguardo la vita di Amy Winehouse, allora ho lasciato cadere momentaneamente il libro sul divano e ho iniziato ad ascoltare con maggior attenzione. Dopo un paio di minuti della mia vita sprecati, ho spento la scatola luminosa e quello che essa trasmetteva, ovvero ciò che ormai non è più un telegiornale ma un varietà, pensando con una punta di disgusto che il mondo debba andare proprio al rovescio se si danno adito a queste vite bruciate con tanta superficialità: tutti i giovani di oggi pensano che morire a 27 anni sia “fico”, io ci vedo soltanto debolezza e mediaticità, con l’eccezione di qualche personaggio sfortunato e di talento che ho deciso di non elencare per democraticità dei morti, in una società in cui la morte vale più della vita e la necrofilia è divenuta lo standard. Con ciò non voglio togliere valore a nessuna vita, ribadisco soltanto che l’idolatrare una sopravvalutata eroinomane riassume perfettamente lo spirito dell’epoca contemporanea, in cui criminali, prostitute e drogati vengono continuamente celebrati, oscurando l’esemplarietà di altri personaggi senza gloria ma con più dignità.

Quando poche ore più tardi di quell’inquinamento acustico/televisivo ho finito di leggere la biografia di Wyatt, ho pensato estasiata: “caspita (o più verosimilmente: cazzo!), questa sì che è una vita da film, magari quando sarà morto (scusa Robert, sto facendo le corna!) qualcuno si accorgerà dell’enorme contributo che quest’uomo ha portato alla musica, e non solo!”. Different every time è una biografia che consiglio a chiunque abbia voglia di imparare una lezione di vita, oltre che musicale, perché è una perfetta antologia della scena artistica inglese: cresciuto vicino a Canterbury, Robert Wyatt è un uomo che ha sofferto e si è saputo rialzare (nonostante abbia passato più della metà della sua vita in carrozzina); un uomo a cui, per dirla come sua moglie – la velenosa quanto dolce Alfreda Benge -, manca quella parte di epidermide che rende una persona impermeabile alle sofferenze altrui: e forse la sua Kunstlerschuld, ovvero i suoi perenni sensi di colpa ed il suo spirito di responsabilità verso il mondo, dovrebbero toccare più della vita di una qualsiasi Amy Winehouse. Un uomo che ha saputo dire di no alle droghe, nonostante non disdegnasse di attaccarsi all’alcol ogni qualvolta si sentisse inadeguato e depresso; un uomo che non ha più voluto fare concerti soltanto per esimersi dalla responsabilità di poter deludere l’ascoltatore, dopo anni passati a piangere nel backstage perchè non si sentiva all’altezza del suo ruolo. Un uomo che ha vissuto con una umiltà che commuove e sbalordisce, un uomo che si recava in carrozzina a protestare ogni mattina insieme alla classe operaia (che, a detta sua, oggi è morta, dato che siamo tutti diventati dei consumatori!), un uomo che si arrabbiava furiosamente quando in ospedale vedeva i deboli maltrattati e che pianse copiosamente quando l’amico Mongezi Feza morì per mancanza di cure adeguate, solo perchè era di colore. Un uomo che ha composto l’intera colonna sonora per il documentario The Animals Film per un centinaio di sterline, quanto i Talking Heads ne richiesero più di cinquecento per un’unica canzone. Un uomo che non si è mai lamentato della propria disabilità, ma che ha saputo ridere in pubblico e soffrire nel privato, sempre pronto a dispensare il suo umorismo a chiunque trovasse sulla sua strada. Un uomo con una voce talmente unica che Brian Eno la definì accuratamente come “il pianto di una creatura innocente abbandonata in un mondo complicato”. Insomma, potrei dilungarmi all’infinito soltanto per ribadire come siano i personaggi genuini come Wyatt a muovere silenziosamente il mondo e non le solite belle facce mute stampate sulle magliette: perchè sopravvivere, combattere e reinventarsi una vita come ha fatto Robert è molto più coraggioso che morire a 27 anni per una overdose.

Fatto il mio dovuto prologo celebrativo al signor Roberto, cominciamo a trattare di questo bellissimo Shleep, uscito nel 1997 con un titolo che richiama l’insonnia e l’amico ebraico Ronnie Scott, morto nel dicembre del 1996. Per descrivere gli anni Novanta, con la solita ironia patafisica Wyatt sostiene che in quel periodo s’infilò in una buca e riemerse nello studio di Phil Manzanera: con l’ex Roxy Music aveva già collaborato in Diamond Head (1975) e quando questi apprese della situazione finanziaria di Robert, decise di contattarlo ed offrirgli i propri studi privati a condizioni estremamente generose (rivelò più tardi: “ho pensato fosse giunto il momento di ripagarlo per essere stata la scintilla della mia ispirazione“). Dopo Ruth is Stranger Than Richard (1975), un disco apprezzabile ma che non aveva soddisfatto Wyatt per il suo frettoloso mixaggio, Shleep fu il primo album inciso in gruppo dato che, per non trovarsi in situazioni di imbarazzo, Robert non aveva più chiamato nessuno a lavorare con lui, complice anche il suo essersi esiliato nella nuova casa nel Lincolnshire per combattere la depressione. Nel 1996, Wyatt si insediò quindi ai Gallery Studios di Chertsey, chiamando qualche ospite a seconda dell’evenienza, come aveva fatto con Rock Bottom: dopo due album (Old Rottenhat, 1985 e Dondestan 1991) in cui Robert cantò e suonò da solo tutti gli strumenti, l’ex Soft Machine si fece coraggio e contattó una serie di musicisti che hanno reso questo disco molto diverso dai suoi due predecessori, anche per i testi scritti a quattro mani con la moglie Alfie. Il personaggio più inatteso fu senz’altro Paul Weller, coinvolto per una fortunata coincidenza: “Stavo registrando qualche provino nello studio di Phil, dove una settimana dopo sarebbe arrivato Robert, e tramite Phil e Jamie venni a sapere che avrebbe registrato la sua rivisitazione di una vecchia canzone degli Style Council, The Whole Point of No Return. Così, quando per scherzo dissi: ‘Beh, se vuole una parte di chitarra o qualsiasi altra cosa, datemi una voce’. E lui me la diede“. Furono presenti anche Brian Eno, con cui Wyatt aveva già collaborato in diverse occasioni, e Annie Whitehead, con la quale aveva invece condiviso alcuni progetti a scopo benefico: quando Wyatt timidamente la chiamò dicendole di non volerla importunare e di accettare soltanto se questo impegno non la disturbava, la musicista accettò con entusiasmo e divenne negli anni il suo amuleto portafortuna; a questa schiera si unirono, infine, anche il chitarrista belga Philip Catherine, l’ex bassista dei Soft Machine Hugh Hopper, il polistrumentista Chucho Merchan ed il sassofonista Evan Parker, con cui Wyatt condivideva la passione per il jazz.

La copertina, come di consueto, venne disegnata da Alfreda Benge, e ritrae il mari51WJ6l3uLYLto mentre spicca il volo dormendo su una colomba, esorcizzando un tormentato periodo di insonnia e depressione in cui Wyatt dovette curarsi col Prozac, dopo anni di riluttanza a qualsiasi terapia. Anche se non lo dava a vedere, Wyatt era fortemente depresso quando cominciò a registrare Shleep: le serene condizioni in cui lo mise Phil Manzanera, facendogli usare il suo studio senza fretta e senza la paura che mancassero i soldi, lo fecero rilassare e, grazie alle sbornie che usava prendersi con Paul Weller ed allo spirito della terapia che stava seguendo, dopo anni stava finalmente imparando a smetterla di auto-infliggersi: “mi misi al lavoro sapendo che gli errori sarebbero stati inevitabili e determinato a non rinchiudermi nel mio guscio ma a reagire solamente con un ‘toh, un errore. Ma guarda te. Peccato, e vabbè’“.

Conclusi i lavori di registrazione del disco, Robert e sua moglie Alfie dovettero trovare i soldi per pagare Phil Manzanera (anche se questi insisteva di non avere fretta) e così si rivolsero all’amico Geoff Travis, la cui etichetta Rough Trade era fallita ma che aveva ancora contatti all’interno settore: questi li portò infatti da Andy Childs, direttore generale della Rykodisc, che si innamorò subito del progetto e decise di scritturare Wyatt. In quella occasione i due coniugi sottoposero una serie di clausole da inserire nel contratto, memori delle lotte intraprese con la Virgin nel decennio precedente e, alla fine, anche se per un cavillo il disco uscì per la Hannibal di Joe Boyd (consorella dell’etichetta), finalmente Shleep vide la luce nel settembre del 1997 seguito dalle ottime recensioni della critica.

Nonostante alcuni brani emergano dagli abissi dalla disperazione, il disco si apre con la leggera “Heaps of Sheeps” in cui Brian Eno e Robert Wyatt cantano assieme alla chitarra del fonico Jamie Jonhnson, con quest’ultimo che fa la sua imitazione di Bo Diddley: Jamie fu un personaggio di enorme aiuto a Wyatt che era, secondo la moglie Alfie, “tecnologicamente alfabeta“, ed i loro messaggi criptici sono ancora tenuti come ricordo negli studi di Manzanera, scritti all’interno delle cartine di Toblerone e piegati come origami. La successiva “The Duchess” deve il suo titolo ad “Alice nel Paese delle Meraviglie” e ritrae Alfie con il solito paradosso patafisico di Wyatt, che la celebra in uno stile calembourista non lontano da “Sea Song“, descrivendola come “old and young, so sweet with her poison tongue” (“vecchia e giovane, così dolce con la sua lingua velenosa”), mentre ad un certo punto della composizione, basata sui tempi insoliti del pianoforte, si innesta il sintetizzatore di Eno e quello che Wyatt chiama un “violino polacco”.

Nella stregata “Maryan” spicca invece il chitarrista belga Philip Catherine, che basa la composizione sulla sua “Nairam”, mentre “Was a Friend” è tutta per Hugh Hopper, che ne aveva imbastito la musica: nel testo, la riconciliazione si rivela come un sogno, ma nella realtà la pace era già stata fatta ed infatti i due vecchi compagni dei Soft Machine collaboreranno insieme più volte fino alla morte del bassista per leucemia, avvenuta nel 2009. La celestiale “Free Will and Testament” è il momento culminante del disco, un brano che lasciò senza parole Weller e che fece piangere lo stesso Wyatt dopo averla incisa: nel mezzo della chitarra slide di Weller, la canzone esplora i limiti del libero arbitrio ma risente anche del timore di Robert di aver rovinato la vita di Alfie: “Mi ha accudito; mi ha portato qui. Ha fatto così tanto da quando sono disabile, e anche prima, per rimettermi in sesto“. Come sempre succube del suo inappagabile Super-Io, Wyatt sostiene che la canzone parla del suo essersi “sempre comportato da stronzo” e questi suoi sensi di colpa emergono come un testamento ideologico privo di certezze ma farcito di una sincera umiltà nell’affrontare i misteri della vita senza assiomi: “Given free will but within certain limitations, I cannot will myself to limitless mutations, I cannot know what I would be if I were not me, I can only guess me“.

In “September the Ninth” si aggiunge al trombone di Annie Whitehead anche il sax di Evan Parker, perfetto sfondo per il testo che Alfreda aveva scritto nella palude di Humberston Fitties, ricordando un episodio in cui un0a mattina fu svegliata da Robert estasiato dalla vista di centinaia di rondini radunatesi in procinto di partire (da qui anche il suo secondo disegno per l’album), mentre di tutt’altro sapore è “Alien” con Phil Manzanera che si innesta sulla linea di basso del colombiano Chucho Merchan e dei suoi ritmi latini, canalizzati poi nel flusso di coscienza dell’intensa “Out of Season” e della granulosa “A Sunday in Madrid“, in cui Wyatt ricorda alcune visioni dei suoi viaggi giovanili in Spagna, tra il vino e la povertà dei minatori. C’è spazio infine per “Blues in Bob Minor“, un omaggio al Bob Dylan di “Subterranean Homesick Blues”, scritta da Wyatt quando si trovava ubriaco a prender sole nel cortile sul retro degli studios, mentre l’arcana “The Whole Point of No Return” sigilla il disco con la cover degli Style Council, in cui Paul Weller rivive la sua vecchia canzone in maniera strumentale e ridotta all’osso, con il trombone di Annie Whitehead che sembra fare le bolle da qualche parte degli abissi dell’anima.

Shleep forse non raggiunge le vette emozionali di Rock Bottom, ma di certo rappresenta finalmente il lieto fine discografico di Robert Wyatt, dopo anni di timide collaborazioni e sporadiche incisioni, che continueranno anche dopo il suo anno zero del 1997, con Cuckooland (2003) e Comicopera (2007), entrambi buoni dischi che risentono degli influssi positivi degli studi di Phil Manzanera.

Probabilmente Robert Wyatt non sarà mai trasmesso per le radio o al telegiornale della sera… Ma forse è meglio così perchè, per parafrasare Seneca, bisogna imparare a disprezzare il piacere che deriva dal consenso delle masse: non dovrebbe quindi rallegrarci il fatto che siano in molti a capirci, perchè le nostre azioni devono ricercare soltanto l’approvazione della nostra coscienza – Robert Wyatt con questo disco finalmente ce l’ha fatta a fare pace con se stesso e ha avuto in anticipo il suo meritato lieto fine.

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