Renaissance – Ashes are Burning

“Nomen omen”: i Renaissance sono stati, senza ogni dubbio, la band di maggior eleganza della scena prog inglese, che meglio ha saputo coniugare la melodia pop al progressive più sinfonico (un mix che, guarda caso, fruttò grande successo negli USA).

La loro storia si divide in due momenti: una prima formazione diede gli impulsi iniziali ma non godette di popolarità, la seconda seppe raccoglierne i frutti e lucidarli ad hoc per il mercato discografico. Il nucleo originale nasce dalla ceneri dei Byrds: nel 1969 Jim McCarty, Keith Relf e sua sorella Jane formarono i Renaissance (cover_48186102009con John Hawken e Louis Cennamo), mentre un altro ex membro della band americana, Paul Samwell – Smith, produsse il disco d’esordio omonimo (Island, 1969), un lavoro non fortunato che portò ad una registrazione nervosa di un secondo album (Illusion, Island 1970), in cui la band andò inevitabilmente in pezzi e nessuno dei membri fondatori rimase.

Nel 1972 i Renaissance erano nelle mani del manager Miles Copeland e degli ultimi arrivati Michael Dunford (chitarra), John Tout (tastiere), John Camp (basso) e Terry Sullivan (batteria): passata alla EMI, la band rimaneggiata sfornò un pop-prog accessibile, connotato dalla voce cristallina e contraltistica di Annie Haslam; il primo album (Prologue, Regal Zonophone, 1972) è un disco acerbo anche se di buona fattura, ma è con Ashes are burning (ibid., 1973) che avviene la svolta definitiva, in un classicismo filtrato dal progressive sinfonico.

Come nel lavoro precedente, anche qui i testi provengono dalla penna della poetessa Betty Thatcher, in una veste grafica confezionata dal collettivo Hipgnosis (quelli di The Dark Side of the Moon, per intendersi!).

Ashes are burning è una grande dichiarazione di deviazione verso un gusto rock più raffinato: un’orchestra aggiunge profondità in un paio di canzoni, mentre la chitarra acustica del rimpatriato Michael Dunford scorre come una costante, unendo la variabile del pianoforte di John Tout come chiave per il suono della band. Il formato di Prologue è qui mantenuto: l’album inizia e termina con due brani progressivi piuttosto lunghi, a fungere da parentesi ai pezzi più brevi e melodici posti nel mezzo.

L’emblematica “Can you understand” tiene insieme tutto lo spirito del gruppo, tra musicalità folk e rock d’emulazione classica: alcune delle sezioni del coro e dei passaggi orchestrali riportano infatti alla mente gli idiomi usati dai compositori russi (Rachmaninov e Prokofiev su tutti). Dopo una splendida sezione strumentale iniziale, la canzone si evolve nel folk, con la sorpresa della piacevole voce di Annie Haslam: la composizione principale è avvolta dolcemente attorno ad una coperta di pianoforte a coda, un oscillante basso, un’esotica chitarra acustica ed una delicata sezione di archi; progredendo, la melodia assume connotati sempre più zitani (“Open up your soul and make your lifeline sunshine now, can you understand?”), scivolando nel finale in una variante più profondamente organizzata della melodia pop con un’orchestra a tutto tondo, ritornando poi a quel meraviglioso tema iniziale invaso da violini, violoncelli e ottoni. Le singole sezioni sono da sole una delizia per le orecchie, ma vengono qui miscelate in dieci minuti di seducente armonia.

L’empatica Let it grow” è una ballata “sursum corda” abbastanza semplice, messa a fuoco dalla canonica interazione tra voce e pianoforte e accompagnata da una chitarra acustica e dalla sezione ritmica. Ancora una volta un gran bel testo, ma ormai non è più una novità; un altro spaccato folk ma con un ritmo di fondo più complesso è la seguente On the frontier“, un pezzo acustico cantato a più voci, stese alternativamente dietro alla chitarra acustica di Dunford e al pianoforte di Tout. Uno dei momenti migliori dell’album è Carpet of the Sun“, una perfetta vetrina per la voce celeste di Annie Haslam, qui rivestita da una melodia pop-folk motivata dall’orchestra, dove spiccano un delizioso clavicembalo e l’incantevole ritornello (“See the carpet of the sun, the green grass soft and sweet. Sands upon the shores of time of oceans, mountains deep. Part of the world that you live in, you are the part that you’re giving”).

La seguente “At the harbour” si stende su un binomio di pianoforte e voce; i primi minuti sono ripresi da un pezzo di Debussy: lo stato d’animo di questa sezione si adatta perfettamente alla storia cantata, fornendo un’evocativa combinazione di “words&music” a descrivere non solo gli aspetti fisici delle mogli dei pescatori tristemente in attesa del ritorno dei loro cari, ma anche per trasmettere, attraverso la sottigliezza della voce di Annie e la suggestione strumentale, l’angoscia provata in quel momento. Tutto questo viene poi concretizzato non con un’orchestrazione complessa e sovrastrutturata, ma con una serie di semplici motivi dal vago riverbero celtico, dove le sfumature minacciose sono in agguato dietro ad una piacevole facciata. Ma il pungiglione si trova giustamente in coda: ultima ma non meno importante la pista omonima che chiude l’album con una ricapitolazione della grandiosità dell’apertura – Ashes are burning” è un’ “opus magnum” che vede la band radunare tutto ciò che ha sparso in precedenza, muovendosi attraverso melodici passaggi vocali, una sezione di organo stupefacente e la chitarra dell’ospite Andy Powell (dei Wishbone Ash). La prima sezione cantata è racchiusa in una cornice di delicatezza sonora, per poi fare spazio ad un interludio strumentale in cui la dinamica si fa più estesa ed intrecciata; infine, l’annuncio delle ceneri che bruciano (“Ashes are burning brightly, the smoke can be seen from afar so now you’re seeing how far ashes are burning the way“) è uno dei più grandi momenti della Haslam, che svetta sul pletorico assolo di chitarra elettrica di Powell. La versione in studio sfuma nel vuoto, lasciando al finale un’interpretazione solipsistica che si riscoprirà “ad perpetuam rei memoriam” nelle performance live. 

Questo è un album a chi è in vena di romanticismo ma senza voler cadere nelle melodie pop e nelle rime banali già sentite: Ashes are Burning é un piacevole disco progressive con ossitocina e mestruazioni, in una scena soggiogata al dominio del testosterone… Ecco i Renaissance, riassunti “a pedibus usque ad caput” e “currenti calamo” in un “modus operandi” non molto rinascimentale!

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