Pink Floyd – The Dark Side of the Moon

Very hard to explain why you’re mad, even if you’re not mad

Con la melodia delicata quanto ambigua di “Speak to me e con le sue parole che odorano di premessa, ha inizio il celebre capolavoro dei Pink Floyd, osannato da pubblico e critica come uno dei più influenti album della storia della musica.
L’importanza di questa pietra miliare nel rock è inconfutabile, etichettarlo come il più bell’album dei Pink Floyd è discutibile, ovviamente – si può senz’altro affermare che sia il disco della svolta.

E pensare che questa grande pagina di storia nasce quasi per caso nella cucina di Nick Mason alla fine del 1971, in previsione del tour di gennaio: The Dark Side of the Moon

The Dark side of moon - Pink Floydnon è un semplice album, è un indagine profonda alla psiche umana e nei suoi lati oscuri in dieci tappe musicali che scavano nel proprio io più profondo; c’è tutto in queste tracce: la presa di potere di fronte al consumismo, la resa di fronte al tempo, la fuga ed il ritorno, ci siamo noi e ci sono loro – “us and them and after all we’re only ordinary men” in un concentrato di tutti gli ingredienti del passato.

Il disco venne registrato tra il maggio del 1972 ed il gennaio del 1973 agli studi di Abbey Road, con sessioni programmate in modo da non sovrapporsi alle partite dell’Arsenal (di cui Waters è un grande sostenitore) e dei programmi televisivi dei Monty Python; con l’allora tecnico del suono Alan Parson, l’album venne poi rilasciato dalla Harvest il 24 marzo 1973, con alcuni scarti dai precedenti album (“Us and them da Zabrieskie Point, “Brain Damage da Meddle) e la garanzia della grafica di copertina ad opera dello studio Hipgnosis.

Il primo lato sembra concentrarsi sul rapporto dell’uomo con il tempo e la sua alienazione nell’adempimento della felicità: l‘album si apre un battito cardiaco altamente simbolico di “Speak to me(apertura fissa dei concerti), e prosegue poi con “Breath“, la cui musica sembra un sussurro e le cui parole un dolce miscuglio di pacata e amara consapevolezza, e dove l’accordo finale riprende quello di Kind of Blue di Miles Davis – questa canzone culminerà poi nel suo lato luminoso di “Breath (reprise), un aggraziato ritorno a casa, con la sua melodia calmante e lenitiva ma un finale ancora cinico (“Far away across the field, the tolling of the iron bell, calls the faithful to their knees, to hear the softly spoken magic spells“).

La futuristica “On The Run“, opportunamente intitolata, è segnata da impetuose sonorità accelerate ed esplosioni ad alta velocità, nel mezzo di esercizi al sintetizzatore che lanciano una corsa contro il tempo che porta proprio a Time“, uno dei capolavori dell’album scritto dalla band al completo, un’epopea della vita scandita dal battito dell’orologio e da un Gilmour magistrale nelle vesti di Cronos.
Anche il funky in 7/4 di “Money è di indubbia importanza: ha sancito, in aggiunta, una svolta dal punto di vista visivo – si tratta di una delle canzoni più ciniche e nello stesso tempo esplicite della band, che proprio qui, musicalmente, dà il meglio di sè con una strumentazione leggera, a discapito del testo sarcastico e accusatorio (ispirato al libro di George Eliot, “Silas Marner”).

Poi vi è la quiete dopo la tempesta della ballata esistenziale di “Us And Them“, iniziato come un pezzo di pianoforte intitolato “The Violent Sequence” durante le sessioni di Zabriskie Point e qui osannato dal dolce sax di Dick Parry, con un testo poetico vicino al songwriting di Meddle e Obscured by CloudsLa strumentale “Any Colour You Like” non è invece generalmente considerata uno dei punti culminanti dell’album, ma mi permetto di dissentire; il titolo riprende una battuta di Henry Ford (secondo il quale il modello T era disponibile in qualsiasi colore, purché fosse nero) mentre strumentalmente si può assistere al dominio della chitarra e del basso, in una jam psichedelica in lotta con un eccellente Wright all’organo Hammond che porta sinuosamente nello slittamento della follia di “Brain Damage“, dove sembra che Waters stia parlando direttamente a Syd Barrett mentre canta “and if the dam breaks open many years too soon and if there is no room upon the hill and if your head explodes with dark forbodings, too, I’ll see you on the dark side of the moon“. 

La maestosa epica finale di “Eclipse” è la ciliegina sulla torta, che sottolinea come la chiave della felicità stia nella nostra volontà di abbracciare “all that you touch, all that you see, all that you taste, all you feel“, ricordando nella disperazione che there is no dark side of the moon, a matter of fact, it’s all dark“. Provata per la prima volta sul palco il 20 gennaio 1972 a Brighton, questa canzone venne sviluppata nelle successive tre date fino alla forma definitiva: una immortale conclusione, che lascia una sensazione di vuoto incolmabile. 

Ironico che il titolo sia stato reciclato: nel 1972, un anno prima, i Medicine Head uscirono con un disco dal titolo “Dark Side of The Moon” ma, essendo stato un flop, i Pink Floyd poterono usarlo nel loro famigerato album (che aveva la sua provvisoria denominazione: Eclipse – A Piece For Assorted Lunatics). 

Roger Waters rivelò anni dopo l’uscita del disco che sua moglie scoppiò in lacrime, dopo aver ascoltato l’album in anteprima: “Quando la registrazione fu terminata portai una copia a casa e la feci ascoltare a mia moglie. Ricordo che si mise a piangere. A quel punto pensai «questo ha sicuramente toccato una corda da qualche parte», ed ero contento di questo. Sai, quando hai fatto qualcosa, di sicuro se hai creato un’opera musicale, quando poi la fai ascoltare a qualcun altro la senti con un orecchio diverso. E fu in quel momento in cui mi dissi «wow, questo è un lavoro abbastanza completo», e avevo molta fiducia del fatto che la gente avrebbe risposto“.

Qual’è il potere di quest’album? Tutte le canzoni s’intrecciano per l’unità finale – è difficile scrivere cosa si prova dopo avere concluso l’ascolto del disco, capace di darti sensazioni diverse e antitetiche ad ogni nuovo giro – è come un film da rivedere più volte per essere meglio capito.
‘L’unione fa la forza‘ dice il vecchio detto popolare, che qui appare più che mai veritiero, in un assemblaggio di canzoni strumentali (su cui spicca “The Great Gig in the Sky” ed un celestiale Wright con Clare Torry alla voce, pagata solo 30$!), componimenti dalle emozioni vagabonde e qualche sinistra parlata che ti riporta malamente alla realtà.

Vi lascio con una curiosità: secondo alcune voci il disco sarebbe stato realizzato per essere ascoltato in sincrono con le immagini del film “Il Mago di Oz”. Ovviamente è solo una diceria, ma pare si ottengano risultati curiosi facendo partire l’album dal terzo ruggito del leone che fa da sigla ai film della MGM.

Vi è la morte per capire la vita, vi è The Dark Side of the Moon per capire i Pink Floyd.
Buon ascolto – I’ll see you on the dark side of the moon!

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