Phish – Farmhouse

“Welcome this is a farmhouse we have cluster flies alas and this time of year is bad – we are so very sorry, there is little we can do… but swat them!”

“Benvenuti, questa è una fattoria, abbiamo un mucchio di mosche purtroppo – siamo davvero dispiaciuti, c’è poco che possiamo fare… schiacciamole!“.

Un ironico paradosso: tutti noi conosciamo quali sono i luoghi prediletti dalle mosche: vi dirò subito che i Phish non c’entrano niente!
La fattoria di cui si parla è in Vermont e appena i ragazzi arrivarono, vi trovarono un cartello che diceva pressochè le parole con cui si apre il disco.
Ascoltare un album di questa american band è come misurarsi con persone dai “volti” molteplici: fenomeno di mascheramento pirandelliano o semplice esperienza di vita quotidiana? In questo preambolo iniziale, ho azzardato il termine di “persone diverse” per il fatto che tutte le canzoni dei Phish, purchè incise su un supporto fisico, vanno oltre la consistenza materica, si subliminano nei live senza mai consolidarsi completamente in una forma definitiva, in continuo mutamento come ogni cosa terrestre.phish-farmhouse

Questa è una delle band che tutti dovrebbero conoscere ma che, come spesso capita ai migliori, viene completamente snobbata da radio e televisioni … Perfino quanto producono il loro album più pop!
Dunque gli dobbiamo una breve presentazione: il principale vocalist e chitarrista Trey Anastasio, perno del gruppo; il magico bassista Mike Gordon, l’anima country, il batterista di stampo ‘zappiano‘ Jon Fishman e l’abilissimo pianista Page McConnell di fede jazzista. Tutti danno un loro personale contributo stilistico alla band, si pensi alla sonorità poliedriche presenti in ogni album, espediente enfatizzato in questo lavoro. Si potrebbero fare benissimo alcuni paragoni, che la critica ha ampiamente sfruttato, con grandi artisti del passato (Grateful Dead in primis conditi da Santana, Zappa e Coltrane) ma non ne faccio perchè spingerei nel retroterra una band che merita un ruolo di spicco e che supera quel vociferare collegamenti al passato (parzialmente veri ma limitativi).

Veniamo all’album: Farmhouse uscì nel 2000 per la Elektra, dividendo critica e fans (come d’altronde ogni loro lavoro, salvo forse A Picture of nectar definito un capolavoro all’unanimità!): l’accusa che gli era stata mossa è di essere un album pop; nonostante questi giudizi – a mio avviso superficiali – dei supporters dai palati più fini, si può dire che sia un album più che apprezzabile, magari non per tutti ma sicuramente dal buon sapore. Un giudizio brillante e unilaterale si ha, invece, nel sostenere che nelle jam session i Phish siano più unici che rari.

La title track Farmhouse” consacra il disco, in una grintosa ballad che apre il sipario con un country sedato (ottimi McConnell e Anastasio) per poi emanare soft rock e chiudersi in un assolo solare (“every man rise from the ash, each betrayal begins with trust, every man returns to dust“: solenne!): da questa canzone già si nota come si lavori bene in questa fattoria ad elevata e vasta produttività.
“Twist” è il primo esempio di eclettismo evidente con cui ci scontriamo: una melodia accattivante dove padroneggiano le percussioni modello-Frank Zappa e qualche occhiolino al blues. In mezzo alla natura della campagna troviamo anche “Bug, l’insetto dell’album che punge con un dolcissimo testo e con un riff dolcemente psichedelico seppur un po’ timido; impaccio che sarà rotto più avanti con “Dirt”, che libera parole a lavar via lo sporco della società, iniziando con un fischiettio folk per poi galleggiare in uno spazio indefinito tra rock e fusion, con un ricorso a più voci: “shout your name into the wind”.

La sinuosa “Back on the train è un’autentica canzone country all’americana, a cui fa seguito “Heavy things, che a dispetto della pesantezza enunciata dal titolo è una di quelle leggere melodie che entrano in testa per restare, ma a dare il colpo di grazia arriva l’inebriante “Gotta jiboo, ovvero come fare una canzone di oltre 5 minuti con sole tre righe di testo… roba da edonisti!
Piper” è una composizione del tutto folle: inizia sobria per poi impazzire completamente nel finale a furia di loop, voci accattivanti e strumenti ammattiti: una traccia esemplare per capire la poetica “phishiana“. I capitoli finali “The Inlaw Josie Wales”‘ e First tube” rappresentano invece le due perle strumentali dell’album: la prima tende al folk e con un piacevole assetto acustico; la seconda sorride al jazz tramite un ritmo indomabile (molto suggestivi Fishman e Gordon).

Come concludere? Ce lo suggeriscono ancora loro: in the farmhouse things will be alright!… E’ un gruppo difficile da descrivere ma sicuramente va somministrato a tutti gli amanti della Musica improvvisativa ed imprevedibile… le dosi di questa “jam” la decidete voi!

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