Rory Gallagher – Irish Tour ’74

Scrivere degli artisti che più ci hanno segnato è sempre difficile, anche se paradossalmente dovrebbe risultare più semplice: Rory Gallagher ha indubbiamente per me un significato speciale, dato che è stato l’ascolto di questo disco a 15 anni che mi ha fatto innamorare della Musica. Per me Rory Gallagher ha il sapore della speranza, e vi spiegherò il perchè.

Nel 1974 Rory Gallagher si era già affermato come uno dei migliori artisti della sua generazione, con quattro anni di carriera solista di successo alle sue spalle, dopo la sua dipartita dal trio dei Taste (con il bassista Charlie McCracker ed il batterista John Wilson). Al contrario, la sua amata patria stava attraversavando un momento di triste declino, travagliata dal conflitto nordirlandese: il clima politico dell’Irlanda del Nord tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta vedeva Belfast squarciata da alcune delle violenze più devastanti nella storia del Paese e nel 1973, durante il tour invernale di Gallagher, la città era letteralmente in ginocchio: Roy Hollingworth, giornalista per “Melody Maker”, presente allo spettacolo alla Ulster Hall, la descriveva come un deserto lugubre ed in frantumi; la scena della musica live era pressochè inesistente, ma Gallagher era disposto a portare una data del tour a Belfast al culmine dei cosiddetti Troubles che stavano lacerando il Paese: mentre i suoi contemporanei avevano voltato le spalle alla città, il rifiuto di Rory di fare altrettanto conquistò il cuore di migliaia di famiglie irlandesi (“Non vedo alcuna ragione per non suonare a Belfast. I bambini vivono ancora qui“, sottolineò Gallagher più volte in merito a questa sua decisione).
E così, Rory e la sua collaudata band di suppo400irishrto, formata da Gerry McAvoy (basso), Rod De’ath (batteria) e Lou Martin (tastiere) approdarono per una tappa a Belfast nell’inverno del 1973 per quello che sarebbe divenuto celebre come Irish Tour, ingaggiando l’acclamato regista Tony Palmer per documentare visivamente questi concerti: Palmer aveva conosciuto Gallagher sei anni prima, quando i Taste avevano fatto da spalla ai Cream nel loro famigerato spettacolo di addio alla Royal Albert Hall e Palmer notò immediatamente lo straordinario talento del giovane Gallagher; il regista era più che consapevole della situazione socio-politica nel nord del Paese in quel momento, ma pur non essendo politicamente attivo, come Rory sentiva che doveva essere consentito suonare sia in Irlanda del Nord che nella Repubblica. Sempre il giornalista Roy Hollingworth per descrivere il concerto e la sensazione di soggiornare di fronte al terrorismo, riferì: “Non ho mai visto niente di così meraviglioso, così agitato, così edificante, così gioioso di come quando Gallagher e la sua band hanno camminato sul palco. L’intero posto è scoppiato, tutti si alzavano in piedi e applaudivano e urlavano, alzavano le braccia al cielo e si abbracciavano. Poi, come una sola cosa, hanno puntato le braccia in aria facendo segni di pace. Senza essere sciocco, o iperemotivo, è stato uno dei momenti più memorabili della mia vita. Tutto significava qualcosa, significava più che semplice rock ‘n’roll, era qualcosa di più grande, qualcosa di più valido“.

Prodotto da Rory Gallagher e rilasciato dalla Polydor, Irish Tour venne registrato nel gennaio del 1974 in diversi concerti tra il Belfast Ulster Hall, il Dublin Carlton Cinema e il Cork City Hall. Dal punto di vista strettamente musicale, Gallagher è ovviamente stato plasmato da artisti del calibro di Albert King e John Lee Hooker, ma ha saputo prendere quelle influenze e trovare un modo di travasarle in maniera personale nelle proprie composizioni. E’ l’intensità che definisce questo doppio album: non c’è niente di raffinato, di preciso, in questa musica; essa è crudo pathos, è il carisma di Gallagher che viene inciso su supporto vinilico, il suo essere un dolce intermediario tra il pubblico e la musica, e non a torto questo disco è stato premiato da “Melody Maker” come miglior album live dell’anno.

Si inizia col fuoco di “Cradle Rock“,  piena di riff e ritmi pesanti, con la Stratocaster di Gallagher sempre in prima linea ma ognuno è udibile e ben distinto, con De’Ath e McAvoy che forniscono una solida sezione ritmica. La successiva I Wonder Who” è un blues strisciante, cover del “padre del Blues di Chicago” Muddy Waters, capace di ammaliare ogni nuovo ascoltatore e trascinarlo giù senza rendersene conto. La sferzante ed autobiografica Tattoo’d Lady” è probabilmente la canzone più nota del repertorio di Rory Gallagher: la sua chitarra è letteralmente un’estensione della sua anima, la musica proviene dalla sua essenza più pura, trasmettendo una vasta gamma di emozioni tangibili e mutabili.

Le prossime due canzoni sono due cover: la prima, “Too Much Alcohol“, riprende il poema alcolico di J. B. Hutto in una delle migliori versioni di sempre; nella seconda “As The Crow Flies” (dall’originale di Tony Joe White) troviamo Rory alle prese con una incendiaria chitarra acustica, con la folla ormai in delirio, specialmente quando mostra il suo talento a suonare in contemporanea l’armonica. Quando la superba A Million Miles Away” inizia la sua ascesa, si è certi di toccare il cielo con un dito: il rito primordiale del rock ha qui raggiunto i suoi livelli più autentici, e nessuna esibizione dal vivo potrebbe mai eguagliare questa magistrale prova di carattere. La scottante “Walk On Hot Coals” attraversa diversi paesaggi sonori a cavallo di un acceso assolo, mentre prosegue la sua strada “Who’s That Coming?“, il perfetto connubio tra blues e rock, slegata dalle masturbazioni improvvisative della traccia precedente. La sinuosa “Back On My Stompin’ Ground (After Hours)” è l’unica canzone registrata sulla Ronnie Lane’s Mobile Unit, parcheggiata fuori dal Municipio di Cork un paio di giorni prima di registrare lo show, un ingannevole preludio all’esplosione finale di “Just a Little Bit“, un malandrino rock ‘n’ roll con qualche fiotto tastieristico che chiude le porte al disco e le apre alla storia.

Irish Tour ’74 mostra una maturità ed una dedizione sconosciuta nella maggior parte delle esibizioni live (ancora oggi), con un vasto assortimento di stili e di emozioni veicolate in un unico album. Anche se può richiedere più di un ascolto per essere veramente apprezzato, non si può non rimanere affascinati e commossi dal carisma di Rory Gallagher, morto nel 1995 per complicazioni dopo un trapianto di fegato, ma che tuttavia, a differenza di molti altri suoi contemporanei, ha vissuto abbastanza a lungo per vedere la sua eredità prosperare nel mondo musicale. Questo disco mostra le capacità di un rocker di unire un popolo ed un Paese in fermento attraverso la sua musica ed è stato per questo una parte cruciale della storia irlandese, e non sorprende il lutto sincero che gli tributó l’Irlanda il giorno successivo alla sua morte. 

Anche se con accenni di folk, skiffle e jazz, Gallagher rimane prevalentemente un artista blues. Rory utilizzava poche distorsioni, fu un chitarrista più melodico, ma non per questo meno potente: tecnicamente non fu di certo il miglior cantante della sua epoca, ma la sua grande carica emotiva e quel meraviglioso accento irlandese, sopperirono ogni lacuna vocale, conferendogli un’aura unica nel suo genere.

Irish Tour ’74 mi porta a riflettere amaramente su un dato: perchè il nome di Rory Gallagher non è così conosciuto? Basta dare un occhio a qualsiasi fantomatica classifica dei migliori chitarristi della storia ed il suo nome viene spesso tagliato fuori, a favore di alcuni artisti di tanto fascino ma scarso talento. Rory ha venduto tonnellate di album, ha riempito grandi arene, eppure non ha ricevuto gli stessi meriti di altri suoi colleghi –  ma forse la mia risposta è proprio lì: egli credeva in ciò che ha scritto ed in quello che voleva realizzare – un rischio calcolato per guadagnare una numero uno nelle classifiche Billboard (il ché probabilmente non era nel suo ordine del giorno) e, solo per questo, per tutte le scelte in controtendenza che ha fatto, dovrebbe essere ammirato. 

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