Pink Floyd – The Piper at the Gates of Dawn

The Piper at the Gates of Dawn è indubbiamente uno dei più importanti album del secolo scorso e deve essere vissuto ed ascoltato con la mente aperta della Londra del 1967: il suo suono rivoluzionario si regge solidamente anche oggi, a differenza di molti altri album del periodo che riverberano stantii nel vuoto della nostra epoca. Questo è fondamentalmente un disco concettuale, semi-ispirato dal libro per bambini preferito di Syd Barrett, “Il vento tra i salici” di Kenneth Grahame (dal settimo capito è stato tratto il titolo), e per questo porta con sè quella maPink Floyd - Piper At The Gates Of Dawn - Frontniera ingenua tipica dell’infanzia, ma nello stesso tempo è anche un inno alla follia come chiave per la trascendenza, un po’ come il Fanciullino di Pascoli sotto acido se volete passarmi un paragone azzardato!

Le origini della band risalgono al 1964, con gli Spectrum Five: Syd Barrett alla voce, Nick Mason alla batteria, Roger Waters al basso, Bob Klose alla chitarra e Richard Wright alla tastiere. Per qualche tempo quando Wright si trovava in vacanza in Grecia, le tastiere vennero affidate a Mike Leonard, un personaggio carismatico che farà mutare il nome alla band in Leonard’s Lodgers, e da cui apprenderanno alcuni trucchi concertistici.

Dall’inizio del 1965 il quintetto cambiò ancora la sigla in Tea Set, con l’arrivo di Chris Dennis alla voce: fu Barrett di ritorno da Cambridge con due vinili sottobraccio a proporre la nuova denominazione “Pink Floyd” , fondendo i nomi di due bluesmen americani (Pink Anderson e Floyd Council). Dal 1966 la formazione si fissò nel classico quartetto (Barrett, Wright, Waters, Mason), creandosi il proprio repertorio fino al 28 gennaio 1967, quando il gruppo entrò nelle cronache per uno spettacolare Light Show (una festa da ballo psichedelica): tre giorni più tardi i Pink Floyd si trovarono sotto agli occhi un succoso contratto per la EMI (e vuole la leggenda che all’atto della firma per la label un funzionario abbia domandato: “Chi di voi è Pink?”).

Le registrazioni dell’album ebbero inizio nel febbraio 1967, nello studio 3 degli Abbey Road Studios londinesi, mentre i Beatles stavano registrando accanto Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (e secondo il manager Peter Jenner i Beatles probabilmente copiarono qualcosa). L’album, prodotto da Norman Smith della EMI, venne rilasciato nel Regno Unito il 5 agosto 1967 per la sussidiaria Columbia, sia in versione monofonica che stereofonica, ed ebbe inoltre un diverso confezionamento per il mercato statunitense, dove è presente il singolo “See Emily Play” (con l’esclusione di “Astronomy Domine”, “Flaming” e “Bike”). Vic Singh ha invece fotografato e disegnato la caleidoscopica copertina, che presenta sul retro anche l’immagine della silhouette del gruppo, opera di Barrett.

L’apertura cosmica di “Astronomy Domine” è uno splendido prototipo delle improvvisazioni effettuate sul palco, una tipica canzone psichedelica della fine degli anni Sessanta con un tocco pop ed un sound basato sui riff della chitarra e qualche semplice ma efficace battito di tamburi; il brano venne registrato dal vivo in studio in due take, con una versione sovraincisa posta sopra l’altra. Il basso di Roger Waters è preminente in tutta la traccia mentre Nick Mason traccia un beat in 6/8 in quello che è uno dei primi space rock della storia: si inizia con la nenia distorta di un astronauta (la cui voce è quella del produttore Pete Jenner) che legge i nomi dei pianeti, con Rick Wright ed il suo organo Farfisa che imitano il codice morse. In seguito, Syd Barrett entra con una stridente chitarra ed i tamburi rompono il muro del suono, mentre le voci monotone di Wright e Barrett si amalgamano all’alienazione interstellare. Dopo un’improvvisazione vagamente orientale, condotta principalmente dall’organo e dalla chitarra, la band decolla all’unisono, atterrando poi nella pista avvelenata di “Lime and limpid green, the sound surrounds the icy waters underground“. Due curiosità: il citato Dan Dare (“Blam pow, pow, atairway scare Dan Dare, who’s there?“) è un personaggio dei fumetti di fantascienza anni Cinquanta, creato dall’illustratore Frank Hampson, mentre Syd Barrett alla chitarra voleva rendere la suggestione degli ottoni di “Marte: il Portatore di guerra”, presente all’interno dell’opera di Gustav Holst “I pianeti”.

La diabolica “Lucifer Sam” è una canzone su cui Waters può dimostrare la sua abilità al basso, in una miscela complessa di strumenti in cui spicca la chitarra di Barrett ed il suo effetto delay. Il testo tratta di un gatto infernale difficile da descrivere (“That cat’s something I can’t explain“), la cui proprietaria è Jennifer Gentle: da qui l’ipotesi di un riferimento alla ragazza dell’epoca di Syd, Jenny Spires. In “Matilda Mother” si possono invece quasi sentire sulla propria pelle gli effetti dell’LSD, grazie alle voci di riverbero nefasto: la coda ha una somiglianza impressionante con “Norwegian Wood” dei Beatles (dall’album Rubber Soul) e non so se sia stata una coincidenza, dato che i Fab Four erano proprio lì accanto, negli studi di Abbey Road. Ne rimane una piacevole traccia psichedelica, con una intrigante introduzione di basso, lontane note di chitarra spumeggianti e l’organo Hammond che si scioglie nell’acido. Syd Barrett e Rick Wright di nuovo condividono le funzioni vocali, con Syd che canta la parte del bambino e Rick quella della madre che gli racconta una favola, per poi svanire in una sezione di valzer nel finale. Barrett originariamente aveva scritto la canzone intorno ai versi di “Cautionary Tales for Children” di Hilaire Belloc, un’opera in cui una serie di bambini cattivi, tra cui Matilda, ricevono una specie di contrappasso dantesco, ma in seguito è stato costretto a riscriverla dopo il rifiuto dell’autore di utilizzarne il testo.
La sognante “Flaming” inizia pesantemente con una serie di suoni ancestrali, per poi sfumare in una canzone pastorale dove il cuculo annuncia “Lazing in the foggy dew, sitting on a unicorn. No fear ! You can’t hear me but I can you. Immagini bucoliche vengono dipinte sopra un melange lisergico che è, di base, una ballata folk con qualche disturbo di personalità, in cui la voce è stata sottoposta ad un flanger tedioso e la sezione centrale ci graffia in viso sorprendendoci da questa distorta oscurità.  
La strumentale “Pow R. Toc H.” è afflitta da suoni e grida, quasi sempre in paradossale sintonia, e si porrebbe del tutto fuori dalla realtà se non fosse per le straordinarie sezioni di pianoforte jazz di Wright e dei tamburi salvifici di Mason, lucidi come due infermieri in un istituto di igiene mentale, almeno fino a quando un cambiamento improvviso di umore porta alla sperimentazione dissennata della chitarra di Barrett (che con Waters fornisce vocalizzazioni animalesche in tutta la linea temporale). Il lento vibrato del famoso organo Compact Duo di Wright soffoca infine la follia sonora con un soffice cuscino. La seguente Take Up Thy Stethoscope And Walk” è l’unico apporto lirico di Roger Waters in questo album, ed il testo devo ammettere che si percepisce subito nella sua debolezza, chiuso tra le spesse pareti psichedeliche della mente di Syd. I tamburi ed il lavoro vocale su questa canzone sono notevolmente forti, in quasi 10 minuti di orologio senza una vera struttura coerente o una melodia riconoscibile, ma ciò che è forse di maggior interesse in questa cacofonia è come tutti i musicisti trovino il proprio spazio vitale per esplorare i loro rispettivi strumenti (organo e batteria in testa) fino all’assalto sonoro finale, che non lascia nulla di vivo, ma solo una buona prospettiva (“Flowers thrive. Realise, realise, realise!). Questa canzone si svolge metaforicamente in un ambiente ospedaliero dove il paziente è degente: il testo non ha molto senso, ma è in grado di simulare la condizione delirante dell’infermo; il titolo è inoltre un’allusione al vangelo di Giovanni e alla guarigione del paralitico (Gv 5,1-16: “prendi il tuo lettuccio e cammina”).

Nella galattica “Interstellar Overdrive” Nick Mason ci mette un buon ritmo arioso, tra vari esperimenti della band con il registratore Binson Echorec e l’effetto eco, in una sezione ritmica roteante intorno a questo sporco tappeto sonoro. Qui Barrett fa anche uso del bottleneck, poco prima di sfociare in un’entropia musicale intergalattica, in cui una pseudo-melodia rappresenta la sottomissione all’LSD, la sua esplorazione e la lenta discesa dalla contemplazione agli abissi. Questo trambusco celestiale ebbe origine quando il manager Peter Jenner canticchiò a Syd Barrett una canzone della quale non riusciva a ricordare il titolo (probabilmente “My Little Red Book dei Love di Arthur Lee); Barrett iniziò allora a seguire il canto di Jenner sulla sua chitarra, sviluppandone così la melodia principale, traendo ulteriore ispirazione da Frank Zappa e dai Byrds per la sezione finale. Bisogna sottolineare che una delle versioni live più interessanti è stata protratta per 17 minuti e registrata al club UFO nel gennaio 1967. 
Le prossime tre canzoni forse sono le meno convincenti di un disco che ha comunque più alti che bassi: “The Gnome è una ballad acustica che si culla tra il country e il folk, dove l’influenza del libro di Kenneth Grahame si sprigiona in un’armonia di incanto infantile. Non ci sono tastiere nè batteria in questo pezzo: Rick Wright suona il vibrafono, mentre Nick Mason effettua qualche leggera percussione con piatti e legni. Di una stranezza unica  e pseudo-gonghiana, infine, la lirica: “Want to tell You a story about a little man, if I can. A gnome named Grimble Gromble and little gnomes stay in their homes eating, sleeping, drinking their wine“. La tanto vituperata Chapter 24” ha una maggiore sensazione orientale e, anche qui, non vi sono percussioni di rilievo, ma un pattern fluido e lineare in cui basso e tastiere sono in primo piano. Una curiosità: Syd prese il testo da un vecchio tomo esoterico cinese, “I Ching”, in particolare dal capitolo 24 dedicato ai cambiamenti ed al successo. Scarecrow” (inserita nello stesso 45 giri di “See Emily play”) è un altro di questi pezzi folk/country in acido, una canzone che sembra avere diverse pagine al suo interno, come fosse un libro (ed è difatti ispirato ad uno di June Wilson). L’organo elargisce il suo salmo nel background, in un pezzo tagliente che contiene anche un interludio strumentale barocco-psichedelico cucito dalla chitarra a 12 corde e dalle nacchere, mentre, nel finale, una chitarra acustica ed il basso elettrico donano un tocco di folklore autentico; il testo allegorico ricalca la tristezza di Syd: come lui, lo spaventapasseri è afflitto per il fatto che egli non può godere della vita, non sarà mai in grado di muoversi e deve soccombere ai topi che smuovono il terreno sotto di lui (“The black and green scarecrow is sadder than me but now he’s resigned to his fate, ‘cause life’s not unkind. He doesn’t mind, he stood in a field where barley grows“).

Bike” conclude l’album con un tono ancora più marcatamente fanciullesco: nella stanza dei giocattoli riverbera un eco sinistro, fino all’ilarità psicotica che chiude il pezzo; a metà della traccia, Barrett si rivolge alla sua ragazza (Jenny Spires, la stessa contro cui inveisce in “Lucifer Sam): “you’re the kind of girl that fits in with my world, I’ll give you anything, everything if you want things” ma è soprattutto l’ultima strofa, di fatto, a dirla lunga sulla mentalità disturbata di Barrett (“I know a room of musical tunes, some rhyme, some ching, most of them are clockwork. Let’s go into the other room and make them work“), anche se non è purtroppo mai possibile capire veramente a cosa alluda. La coda vocale è serrata da un peculiare ensemble che può essere comparato ad un brano di “musica concreta”: un rumoroso collage di orologi, campane, una porta che cigola, violini striduli e altri suoni modificati con tecniche rudimentali, che si dissolve in una maniacale risata simile al verso di un’anatra. Pare infine che Barrett, per comporre il brano, si sia ispirato ad un paio di canzoni firmate da Sellers e Milligan, siglate per alcune pellicole degli anni Cinquanta e Sessanta ma credo che avesse anche presente “The Return of the Son of Monster Magnet”, che scuote il finale di Freak Out! di Frank Zappa con la sua sperimentazione chiassosa.

The Piper at the Gates of Dawn è un’esplorazione di un mondo che va oltre i sensi ed, allo stesso tempo, un elogio alla follia (se vogliamo citare Erasmo da Rotterdam, che qui non c’entra proprio nulla: una metafora non-sense che sarebbe molto barrettiana!); l‘album – ed i singoli “Arnold Layne” e “See Emily Play“, che non dimentichiamo – occupa un posto simile nella storia della musica alle prime uscite dei Grateful Dead: entrambi servono come capsule per tornare indietro nel tempo allo scadere degli anni Sessanta, rappresentando due centri culturali dell’epoca: la Swinging London e Haight-Ashbury (a San Francisco). Le similitudini sono tante, con entrambe le band che dovettero privarsi della loro vena psichedelica troppo presto, a causa della perdita di Syd Barrett, i primi, e di Ron “Pigpen” McKellen,  i secondi.

Questo album ha notevolmente ispirato i successivi capolavori dei Pink Floyd – i membri della band lo hanno ammesso chiaramente – ed è per questo che “Wish You Were Here” è stato un tributo sincero a Barrett, il fondatore e cantautore del loro nucleo originario. E’ triste pensare alla sua fine, ma rasserena l’eterna istantanea dei Pink Floyd e dei Soft Machine assieme in quei giorni sul palco del club UFO: fu qui che il futuro produttore Norman Smith si convisse ad ingaggiare i Pink Floyd, non che gli piacesse particolarmente la loro musica, ma puntuale ne seppe cogliere le enormi potenzialità; lo stesso Smith ricorderà in seguito come una gran fatica il lavoro di registrazione di questo primo album: Lavorare con Syd era veramente un inferno. Non penso di avere mai lasciato una singola sessione per quell’album senza una fortissima emicrania. Syd non sembrava aver entusiasmo per niente. Lui cantava una canzone, io lo chiamavo in studio e gli davo qualche dritta. Poi lui tornava in sala registrazione e continuava a cantare quella parte allo stesso modo di prima, infischiandosene dei consigli che gli davo. A volte cambiava anche le parole, non aveva disciplina. Parlare con lui era come provare a parlare a un muro di mattoni, perché il suo viso era senza espressione. I suoi testi erano semplici e infantili, come lui: proprio come un bambino, per un attimo era su, e il secondo dopo giù“.

Il 2 dicembre 1967 per un doppio spettacolo al Dome (a Brighton) si dice che David Gilmour abbia fatto la sua prima apparizione con i Pink Floyd per sostituire Syd Barrett (come confermato nel libro “The Hendrix Experience” dal batterista Mitch Mitchell). Da allora la storia dei Pink Floyd è notevolmente cambiata, complice anche un personaggio più composto come Gilmour, ma questo disco, eccentrico come l’inferno dantesco, spinse la scena musicale centinaia di passi in avanti.

Gli amanti del rock psichedelico sicuramente apprezzeranno l’album, ma non so se sia da considerarsi un disco per tutti gli appassionati dei Pink Floyd: io stessa ricordo benissimo quando, a circa 17 anni, l’ho ascoltato per la prima volta e mi ci sono voluti almeno un paio di anni per capire pienamente quanto esso sia lodevole; The Piper at the Gates of Dawn è uno degli album più importanti della storia del rock, un gioiello partorito dall’estro visionario del compianto Syd Barrett: esso ha indubbiamente bisogno di un periodo di quarantena e di assimilazione ma il suo grande successo è dovuto anche al fatto che tutte queste canzoni rappresentano la fragile psiche di Syd in una maniera così autentica e spontanea che quasi commuove. Quindi… Shine on you, crazy diamond!

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