The Moody Blues – Days of Future Passed

Le storia dei “Moodies” cominciò nel lontano 1964 nel Brum Beat di Birmingham: inizialmente si facevano chiamare MB Five come ringraziamento allo sponsor (la birra Mitchell & Butler) ma la sigla venne presto modificata in Moody Blues, dal titolo di un vecchio pezzo di Slim Harpo. La formazione originale di stampo R&B vide riunire insieme Ray Thomas (voce, flauto), Michael Pinter (tastiere), Graeme Edge (batteria), Clint Warwick (basso) e Denny Laine (chitarra) nel singolo d’esordio “Go Now”, un pezzo “nero” americano che cadde dritto al primo posto in classifica; nel frattempo, il manager Brian Epstein approfittando dell’inaspettata fama li mandò in tour coi Beatles ma, a dispetto del successo del 45 giri, l’album The Magnificient Moodies (luglio 1965) non entró neanche in classifica e la formazione attraversò un momento di profonda crisi. Con l’abbandono di Warwick e Laine, arrivarono John Lodge al basso e Justin Hayward alla chitarra, due personaggi carismatici che scossero il sound della band, ma complice del successivo rinnovamento stilistico fu indubbiamente anche il nuovo produttore Tony Clarke (“il George Martin dei Moodies”); nello stesso anno il gruppo accantonò le sonorità beat per il progetto di una versione rock della “Sinfonia del Nuovo Mondo” di Antonin Dvorak, un’impresa che morì sul nascere quando Hayward mise a punto il testo di “Nights in White Satin“: nel pieno dell’ondata psichedelica che stava diffondendo il suo virus sul terreno inglese, i Moody Blues stavano invece correndo verso la direzione opposta, nell’aulica compostezza della musica classica.

Nel novembre 1967, quasi cover_28391121102008tre anni dopo il primo singolo, uscì per la Deram l’album Days of Future Passed, nella bella copertina ad acquerello di David Anstey, con un grande risultato in termini di vendite che riaccese gli entusiasmi della band, convinta così a dedicarsi con più entusiasmo alle nuove combinazioni del rock sinfonico. In questo disco i Moodies non furono però soli: l‘album venne registrato nel corso di un periodo di tre settimane con la band chiusa in uno studio e la London Festival Orchestra diretta da Peter Knight a lavorare nella stanza accanto. C’erano stati diversi giudizi da parte della Deram a proposito del risultato finale, ma l’album venne comunque rilasciato l’11 novembre 1967 nel Regno Unito.

Con le tastiere in primo piano, una spiccata enfasi negli arrangiamenti orchestrali ed una certa organicità dei brani, Days of Future Passed è un concept-album dedicato allo scorrere del giorno. La voce di Justin Hayward è sicuramente uno dei punti salienti, capace di raggiungere impeccabilmente quasi tutte le gamme tonali. Inoltre, il tastierista Michael Pinder fu uno dei primi ad accogliere il mellotron: questi aveva infatti l’abitudine di lavorare per una società denominata Streetly Electronics, che gli rese lo strumento; fu uno dei pochi musicisti di allora in grado di gestirlo, e non fu sempre facile: in uno dei loro primi tour americani, il mellotron si aprì sul palco vomitando il suo nastro. Disgrazie a parte, inutile sottolineare che entro tre anni questo strumento sarebbe diventato il volto onnipresente del rock progressivo.

La giornata inizia con una ouverture: The Day Begins” mostra in un’introduzione sinfonica tutte le melodie che saranno poi ascoltate nell’album, in cui Graeme Edge sparge il suo famoso monologo pseudo-shakespeariano (“Cold hearted orb that rules the night, removes the colours from our sight, red is gray and yellow, white, but we decide which is right, and which is an illusion“) che è maestoso e nobile ancora al giorno d’oggi.

Dawn: Dawn is a Feeling” è un brano dolce che fonde un sonnolento pop alla musica classica, che ci ricorda la naturale indolenza di quando ci si sveglia: Dawn is a feeling, a beautiful ceiling, the smell of grass just makes you pass into a dream. You’re here today, no future fears, this day will last a thousand years if you want it to“. Il concetto espresso nell’intero album comincia da qui e concerne la scoperta dopo il risveglio, l’illuminazione spirituale e l’amore universale tramite il racconto di un uomo medio che passa attraverso la sua routine quotidiana e che si ritrova a scoprire queste cose per la prima volta. Questa canzone rappresenta bene i Moody Blues, con una naturalezza che forse stona leggermente con la lirica ampollosa ma che sembra felicemente incastrarsi all’orchestrazione di massa e alla cristallina voce di Justin Hayward. Una curiosità: questo brano causò un certo ostracismo della stampa inglese, che incriminò i versi “The smell of grass just make you pass into a dream” come indice di un presunto uso di droghe da parte dei Moodies.

L’allegraMorning: Another Morning” presenta una melodia felice ma estremamente accattivante, condotta principalmente dagli strumenti a corda (nonostante i bellissimi momenti del flauto). Mi ricorda qualcosa degli Small Faces – ma senza il loro umorismo – ed è capace di portare in musica la freschezza delle belle giornate invernali. Infine, un testo molto perspicace (“Time seems to stand quite still: in a child’s world, it always will”, “Yesterday’s dreams are tomorrow’s sigh“) aiuta a consolidare le qualità della band abbinate all’orchestra.

Lunch Break: Peak Hour” è una pista veloce con grandi armonie vocali, che ci introduce all’interno delle attività frenetiche delle ore di punta: lo capiamo subito dalla sua introduzione trafficata, nel contempo gloriosa e nervosa. Essa offre una colonna sonora orchestrale estremamente contemporanea e, anche se non è una traccia indimenticabile, ha i suoi bei momenti quando l‘apertura classica si trasforma improvvisamente in un rock classico, con tanto di assoli di chitarra ed un canto sbarazzino. La seguente Tuesday Afternoon: Forever Afternoon”  è un punto culminante, che dimostra come una canzone non deve essere per forza complessa per essere apprezzata. Tra eleganti mellotron, morbide percussioni ed una voce impennata, essa si estende su un poema epico pomeridiano, devastante e magnifico allo stesso tempo. Ironia della sorte, non c’è praticamente nessuna partecipazione dell’orchestra in questa sezione, il che rende il Martedì Pomeriggio il giorno per eccellenza dei Moody Blues in questo Days of Future Passed.

Un’altra canzone sezionata è Evening: The Sun Set: Twilight Time” che vede questa volta un orientaleggiante Pinter nella prima parte in contrapposizione al tramonto più psichedelico di Thomas nell’ultima sezione (forse il pezzo più vicino allo stile Beatles nell’album). Le tre parti sono fuse insieme in una composizione perfetta, aromatizzata da bellissimi passaggi di orchestra e synth che agitano l’anima; le voci stratificate sono invece inquietanti ed ipnotiche, e paiono prendere il volo nel mondo dei sogni anche grazie al soffice trampolino della chitarra acustica. Ma non mi divagherò ulteriormente, perchè il capolavoro è proprio dietro l’angolo e già se ne sente l’odore: Nights in White Satin“, nella sua perfetta accessibilità (nonostante la maggior cattiveria orchestrale con arpe e corni) è una delle più belle ballate del prog-rock. La tristezza di una notte solitaria (“Nights in white satin, never reaching the end, letters I’ve written never meaning to send“) viene perfettamente somatizzata: il modo in cui la canzone scorre è sorprendente, con quel soave motivo di fondo di mellotron che è divenuto una sorta di marchio registrato (non a caso furono innumerevoli le cover, anche in italiano: “Ho difeso il mio amore” dei Nomadi è solo la più famosa). L’orchestra gestisce il finale, che nella versione estesa del disco lascia l’ascoltatore con le parole della poesia “Late Lament scritta da Graeme Edge e letta da Mike Pinder. Justin Hayward iniziò a stedere invece il testo della traccia a 19 anni, in una serie di pensieri casuali abbastanza autobiografici, quando si trovava al capolinea di una grande storia d’amore e all’inizio di un’altra relazione.

Dopo un altro concept-album (To Our Children’s Children’s Children) la vena sinfonica dei Moodies si esaurì; gli ultimi tre dischi rilasciati dalla loro etichetta personale – la Threshold – ottennero un successo clamoroso che li consegnerà alla storia come un gruppo pop stucchevole e melodico. All’inizio del 1973 il gruppo si sciolse definitivamente, coi musisisti che diedero il via ad una serie di carriere soliste abbastanza fallimentari. Nel 1978, chiusa anche la Threshold, tornarono insieme quasi controvoglia per Octave.

Ma torniamo a questo album, che ancora si contende la paternità del progressive coi Procol Harum del singolo “White Shade of Pale” (che fonde l’ “Aria sulla quarta corda” e “Wachet auf, ruft uns die Stimme” di Johann Sebastian Bach con “When a man loves a woman” di Percy Sledge) e The Thoughts of Emerlist Davjack dei Nice. In attesa di un test del DNA certo o dell’isolamento di un frammento di progressive per la datazione al carbonio 14, bisogna comunque sottolineare che al di là del dibattito sempiterno di ciò che è o non è sintomaticamente progressive, questo disco uscì in anticipo di un mese rispetto agli altri due contendenti alla paternità.

Nonostante tutto, la disputa continua a riverberare ancora oggi: è davvero Days of Future Passed il primo album nella storia della musica progressive? Basta quel mese di anticipo per ritenerlo tale? O bisogna aspettare la nascita del Re Cremisi? Questa è una domanda che è stata trattata per decenni e con ogni probabilità continuerà ad essere discussa ancora negli anni a venire, come l’uovo e la gallina. Indipendentemente dalla risposta, questo album è uno dei più influenti lavori degli anni Sessanta: ovviamente non è così complicato e cervellotico come la maggior parte delle opere prog-rock a cui siamo abituati, ma non possiamo negare per questo la sua importanza storica.

L’influenza di Antonín Dvorak è ben percepibile, con molti motivi celati tra i suoni più rock e sinfonici di un disco che si presenta comunque ben coeso. Alcuni hanno citato Days Of Future Past anche come il primo “concept-album” della storia, tuttavia lo stesso Hayward rivelò che ci fu altro predecessore di cui erano a conoscenza, ovvero The Zodiac dei Cosmic Sounds.

Per concludere: se avete già eretto una sezione progressive nella libreria della vostra mente, sarete sicuramente già a conoscenza dell’enorme volume occupato da questo disco. Ma se non ne avete mai sentito parlare e siete abituati ad un sound più moderno, allora forse al primo ascolto questo lavoro potrà sembrarvi leggermente datato, ma dategli un po’ di giri e ne comprenderete la magia. 

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