Pholas Dactylus – Concerto delle Menti

Originari della provincia di Milano, gli allora giovanissimi Pholas Dactylus si formarono intorno al 1972 per iniziativa di Eleino Colladet (dai Macus 67), che mise insieme il gruppo con Rinaldo Linati, Valentino Galbusera e Giampiero Nava (con questi ultimi due provenienti dai Puritani). Il nome della band richiama quello di una conchiglia, ed era stato scelto perchè il termine PHOLAS ha sempre dato l’idea di una ”folata”, un soffio di vento improvviso, rapido, impetuoso che, non solo ti scompiglia i capelli, ma che dà una sferzata, un brivido salutare, insomma un’emozione che lascia la sua impronta e poi scompare, e questo calza perfettamente con l’immagine che avevo e ho conservato del ”prodotto musicale”, di qualunque genere sia (Maurizio Pancotti).

Il quartetto iniziale divenne infine un sestetto, fissandosi nella seguente formazione: Valentino Galbusera (organo Laurie, una scelta in controdendenza nell’era dell’Hammond), Giampiero “Peo” Nava (batteria Hyman), Maurizio Pancotti (piano elettrico Davoli), Rinaldo Linati (basso elettrico Gretsch), Eleino “Lello” Colladet (chitarra elettrica Gibson-Les Paul) ed il vate Paolo Carelli (voce). Nonostante il tentativo intelligente di coniugare poesia visionaria e rock d’avanguardia, il successo dei live (celebre il concerto di apertura agli Amon Duul II) non andò pari passo con quello discografico, complice anche l’evidente difficoltà di porre su supporto vinilico le lunghe parti recitate.

Il Concerto Delle Menti” è stato pubblicato nel 1973 con l’intrigante copertina di Cesare Monti, sulla neonata etichetta Magma che era stata fondata proprio in quegli anni da Vittorio De Scalzi dei New d3Trolls. Maurizio Pancotti rivelò che “il titolo assurdo e incomprensibile, non fu scelto dai componenti, ma dai soliti ignoti (o noti) che governano il mondo discografico” e che l’album fu il frutto di una registrazione in una sala d’incisione a Pero (MI), in tre giorni di ”lavori forzati”.

Il disco si divide in due lunghe parti, per un totale di circa 53 minuti di esecuzione. La parola migliore per sintetizzare forse questo album sarebbe “intenso”, tra drammatici momenti di accumulo di pathos e sezioni di rilascio emotivo. Un buon confronto avverrebbe invece con YS dei Balletto di Bronzo, ma spogliato delle  tastiere pesanti e con una musicalità più oscura: mentre su YS, Gianni Leone si trovava in pole-position per tutto l’album, qui la chitarra ed il basso guidano gran parte di questo concerto cerebrale, contrappuntando il tossico recitar-cantando di Carelli. Gli appassionati di organo, mellotron e piano troveranno comunque grandi sezioni, ma nel suo complesso questo è fondamentalmente un album dominato dalla chitarra e dalla sezione ritmica. I testi sono ricchi di simbolismo visionario e scrittura automatica, espressi in un lisergico beat perso tra miraggi cosmogonici e istantanee apocalittiche e, non a caso, autori come Henry Miller e Charles Baudelaire sono stati citati come fonte d’ispirazione.

La prima parte inizia nel silenzio, con la voce asettica di Carelli che annuncia: “Tra poco voi salirete su di un tram, uno di quei vecchi, scassati tram che assomigliano tanto a voi, dopo una giornata nera, vuota, paranoica . Per un po’ l’ andatura di quel tram, sarà per voi quella di tutti i giorni. Il vostro occhio cadrà sul pavimento, lurido pavimento, ricoperto dalle incrostazioni degli sputi dei passeggeri, che vi hanno preceduto. Toccherete sulla spalla il vostro vicino di sedile per chiedergli qualcosa, vi renderete conto con immensa disperazione, che non avete toccato altro che un mucchio di stracci, il cui contenuto è il nulla. Chiamerete urlando il conducente, egli si volterà , e vedrete il volto della morte delle menti”. Il viaggio continua tra lisergiche litanie, quando “gli imbecilli ci stanno guardando, e non sanno più cosa fare, il terrore diventerà grande, ed il grasso, farà da padrone, quanti dischi coperti di sangue, sangue viola, respiri mozzati, e i pianeti, di questa galassia, si son fusi, in un unico blocco, in un unico ammasso di fuoco“. La discesa dei “sei angeli d’acciaio” segna un momento di affascinante apocalisse, con un testo sempre più altalenante sorretto dalla parte musicale traballante, che si dilata e si restringe in una respirazione affannosa mentre sul finale “gli uomini mascherati, le donne mascherate, tutti, sprofondano nella sabbia, per poi dissolversi in una nuvola arancione prima, nera dopo… Poi, il tuono della morte. Una morte che non è morte, perché non c’è mai stata vita. Compro e vendo cervelli usati, compro anche quelli di scarto“.

Nella seconda parte più briosa “il tempo e lo spazio non ci sono più“, ma sono presenti invece alcune sezioni corali di grande intensità. Le doppie tastiere, la chitarra coraggiosa di Colladet e la sezione ritmica acida offrono una cadenza che incanta l’ascoltatore, in cui il rock negozia in strada direttamente col jazz, in un terreno cementificato da un oscillante Krautrock. La musica scorre sempre con improvvisi cambiamenti di umore e di ritmo, mentre la voce raffigura altre visioni da incubo: sul litorale un uomo barbuto raccoglie la spazzatura,  il mare sa di nafta, i rifiuti non puzzano, un monaco rosso prega, una bambina verde si perde mentre un ragazzino di pietra con un braccio rotto (“e glielo avete rotto voi!”) racconta della strage delle colombe bianche e della pelle umana stesa sotto il sole ad asciugare… L’ultima parola viene tagliata, la visione è improvvisamente interrotta e l’album è giunto bruscamente al termine, tra catastrofi nucleari e stragi belliche che ci fanno chiedere: ma è soltanto poesia fantascientifica o è la mera realtà che ci circonda?

Lo stesso Pancotti asserì: “Se dovessi cercare un’immagine ora che possa sintetizzare ciò che sembrava aver creato Pholas Dactylus con il “Concerto delle Menti”, userei senz’altro il termine “nucleare”: una sorta di uranio arricchito che non aveva una centrale adatta al suo sfruttamento“.

Può piacere o non piacere questo lavoro, ma è innegabile che il Concerto delle menti sia un album unico ed originale, che sicuramente ha portato una certa influenza nella scena underground nazionale (non so, di nomi recenti mi vengono in mente i Massimo Volume ma con meno garbo, o gli Offlaga Disco Pax senza elettronica… Ma scavando ancora sicuramente vi saranno altri nomi… Ma fa caldo, e il pensiero fa sudare!). Coi suoi testi decadenti che si snodano tra l’hard-rock e texture più psichedeliche, ed un cucchiaino di vetusto Krautrock che non guasta mai, ecco servito uno dei dischi più interessanti di sempre del panorama italiano.

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