Hawkwind – In Search of Space

Innanzittutto, devo confessare di non essere mai stata una grande fan degli Hawkwind, complice sicuramente la mia idiosincrasia patologica verso Lemmy Kilmister. Eppure, una sera di pochi mesi fa, mi è capitato di trovarmi a discutere con un amico riguardo ai primi album di questo gruppo e, notando la mia faccia perplessa e disgustata, ci congedammo con la promessa che avrei ascoltato attentamente alcuni mattoni della loro mastodontica discografia: devo ammettere che i primi quattro album mi hanno lasciata abbastanza stupefatta, a dimostrazione del fatto che alcune band spesso trovino redenzione nel nostro Super-Io soltanto se ascoltati nel periodo più idoneo ad accoglierli nella nostra vita.

Lasciando nel sottosuolo la mia antipatia per Lemmy (eh già, quella persiste!), oggi ho deciso di inserire nell’elenco degli album che più mi hanno colpita/sbalordita/stupefatta/chipiùnehapiùnemetta anche questo In Search of Space, uscito nel 1971 per la United Artists – ovvero il secondo disco degli Hawkwind (dopo l’omonimo del 1970) e l’ultimo prima dell’arrivo del signor Kilmister.

Gli Hawkwind nacquero come un lisergico trip nella mente del cantante e chitarrista Dave Brock, un musicista di strada dei quartieri allora popolari di Notting Hill: è lui il solo custode di una lunghissima e complicata storia rock, nata nel 1969 col nome Group X e che porterà la formazione a suonare gratis fuori dai cancelli del Festival di Wight bel 1970. All’inizio, al fianco di Brock, ci furono il tecnico elettronico Dik Mike, il batterista Terry Ollis einsearch-500x500d il sassofonista Nik Turner, aiutati nel primo omonimo LP dal chitarrista/produttore Dick Taylor (Pretty Things), un artista fortemente devoto ai suoni del Krautrock, dei Gong e dei Grateful Dead. Dopo alcuni svelti cambi di formazioni, tra cu, l’arrivo di Del Dettmar – promosso da roadie a tenico elettronico – e Dave Anderson (Amon Duul) al basso, uscì nel 1971 In Search of Space, edito in una copertina apribile con in allegato The Hawkwind Log, un ancestrale diario di bordo degli Hawkwind, nonchè uno strano breviario di astrologia, occultismo e vita hippie: questo secondo album fece segnare improvvisamente un picco di vendite e popolarità, spingendo la band nelle top 20 inglesi, anche grazie alla presenza sul palco della formosa danzatrice Stacia, accolta con grandi ovazioni ogniqualvolta usciva in scena praticamente seminuda! Per quanto riguarda le ispirazioni, Brock nutriva una forte passione per i classici della fantascienza, da Isaac Asimov ad Arthur Clarke, mentre un grosso aiuto venne elargito dalla mano del poeta sudafricano Robert Calvert e dallo scrittore Michael Moorcock, entrambi coinvolti nella stesura del disco.

Il viaggio ha inizio con l’estraniante “You Shouldn’t Do That“, oltre 15 minuti di depravazioni spaziali e litanie krautrock, convogliati su un ritmo metronomico sul quale, con pochi accordi, progredisce la melodia, stretta dal sassofono incupito di Turner e dall’elettronica cavernicola di Dik Mik: si tratta fondamentalmente di una jam psichedelica con un intercedere ipnotico, una miscellanea di suoni e riverberi ossessionanti che sembrano decollare per non atterrare maiSull’altro versante, affiora la più affabile “You Know You’re Only Dreaming” che riprende il riff di “Jackson-Kent Blues” della Steve Miller Band, mentre ripristina l’ortodossia galattica “Master of the Universe“, l’apogeo degli Hawkind e del loro viaggio spazio-temporale, avviando la seconda parte del disco con un segnale elettronico acuto e la linea di basso aliena di Anderson, tra schegge di chitarra distorte nello spazio e lo strato incandescente della melassa “sassofonica” di Turner. 

Ritorna, invece, prepotentemente al passato folk di Turner e Brock “We Took the Wrong Step Years Ago“, una pacifica nenia cullata da una chitarra a dodici corde che pare virare verso il loro album di debutto, mentre Adjust Me” – come suggerisce il titolo – è una sintonizzazione sulle frequenze degli Hawkwind, tra oscillazioni elettroniche, galleggianti sassofoni e voci robotiche, nel mezzo di buchi neri e scorci di infinito. La sezione strumentale entra con cautela, come se annusasse ed ispezionasse il territorio per assicurarsi che ogni cosa stia al suo posto, forgiando un breve “freak-out” krautrock preso in prestito da Phallus Dei e che si diffonde nelle oscillazioni spettrali del sintetizzatore fino ad essere, senza misericordia, travolti dalla velocità e dalla frantumazione di queste balbuzie elettroniche, destinate poi a sgretolarsi nel vuoto della semi-acustica Children of the Sun“, tra ritmi jingle-jungle e siderale psichedelia.

Col terzo album Doremi Fasol Latido (1972) e l’arrivo di Lemmy Kilmister al basso, la band iniziò il suo periodo più fortunato in termini di vendite, facendo un altro importante passo nella definizione del loro lisergico space-rock col doppio live Space Ritual (1973). Tutto il resto è storia trascinata per i capelli, riciclata ed altamente prevedibile…

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