Van Der Graaf Generator – Pawn Hearts

Prego, signori e signore, prima dell’ascolto lasciare il cuore in pegno, come suggerisce il titolo.
La storia dei Van Der Graaf Generator è marchiata da piccoli capolavori concepiti all’ombra, con un occhio di sbieco al lato oscuro del prog: i mister Hydes in questione appaiono visionari e corvini, guidati dal vate espressionista Peter Hammill in un’atmosfera decisamente gotica, difficile da ispezionare. Quel che è certo è che non vi è tempo per le fiabe; si tratta di un progressive di matrice esistenzialista che si prende sul serio: è la realtà che penetra nella musica, e non c’è via di scampo.

La copertina è un’opera surrealista di Paul Whitehead che ritrae Hammill e compagni in una sorta di scacchiera ancestrale che fa da preludio all’immagine interna, dove la band si scambia un discusso saluto fascista, citando una statua che a detta di Hammill gli aveva fatto letteralmente venire i brividi.
Dopo H to He – Who am the Only One, Pawn Hearts venne originariamente rilasciato nel 1971 dalla Charisma di Tont Stratton-Smith, dalle ceneri di ciò che originariamente avrebbe dovuto essere un doppio cd; si compone di sole tre tracce dalla durata ipercalorica che, dopo un primo assaggio, risultano però digeribili.

Si inizia con la funerea “Lemmings“: i lemmi sono piccoli roditori che, secondo la leggende nordiche, durante le migrazioni praticano il suicidio di massa… In realtà essi periscono per svariate cause accidentali, conseguenza del loro spostarsi in gruppi troppo numerosi: una allegoria perfetta nelle mani del teatrale Hammill che ne fa un’epopea metaforica sull’autodistruzione a cui è votato l’uomo a causa della sua natura corrotta. Scritta durante i giorni bui della guerra del Vietnam e della guerra fredda (che ha reso l’apocalisse nucleare uno scenario possibile), il testo sostiene allegoricamente la contestazione dell’autorità e la scelta di un proprio personale cammino ma, mentre le immagini sono visioni inquietanti, la canzone è un messaggio di speranza: l’azione individuale può ancora superare il gioco sociale, e quindi garantire un futuro migliore per iai propri figli. Ottima, infine, la texture strumentale ordita dall’organo funereo di Hugh Banton, dal sassofono acrobatico di David Jackson e dall’abrasivo Guy Evans alla batteria, specie nella sezione finale, intitolata “cog”, che è un vero e proprio ingranaggio, alienante e luciferino fino alla lucida sentenza finale: “what choice is there left but to try?“ che passa direttamente dal sussurro all’urlo.

L’eterea “Man-Erg” inizia in un delicatissimo piano sulla cui melodia si disperde un bipolarismo introspettivo: “The killer lives inside me – yes, I can feel him move […] angels live inside me – I can feel them smile…“; per poi cambiare nevroticamente tono, istigando una lotta tra organo e sax. E’ in corso uno scontro tra il bene e il male, o è soltanto la loro ineluttabile coesistenza a farsi sentire? All’inizio Hammill cerca di scindere le due istanze, ma dopo uno scontro lirico e strumentale si arrende all’evidenza ed alla confusione (“and I, too, live inside me and very often don’t know who I am: I know I’m not a hero, well, I hope that I’m not damned“): Il tema è un leit-motiv in tutta la storia dell’arte, ovvero la dicotomia della natura umana: intelletto ed istinto, ragione e passione, si contendono il controllo di tutti noi – ma quando ascolti questa canzone, sei senza dubbio consapevole di trovarti di fronte ad una delle composizioni più belle di tutta la storia.

A plague of lighthouse keepers” è una suite imponente di 23 minuti suddivisa in ben dieci movimenti, tra riflessi acustici e slanci corali, fiammate strumentali e lirismo poetico, che vede la partecipazione del genio cervellotico Robert Fripp alla chitarrra (presente anche in alcuni brandelli dei brani precedenti). Impossibile descriverla sinteticamente, per la varietà di suoni presenti al suo interno, ma d’altronde il suono frastagliato è il marchio di fabbrica della band, che ben si riflette nella multiforme voce di Hammill – che passa dal falsetto al growl in pochi secondi – e dai virtuosismi maniacali di Jackson, Banton e Evans che regalano un’atmosfera di decadente romanticismo. Non si sa mai cosa si nasconda dietro l’angolo, o cos’abbia in serbo l’istrionico Banton: in tutta questa apparente confusione la solitudine del guardiano del faro assembla ancora il caos, elevandosi a metafora esistenziale fra le moderne pestilenze: “all things are a part, all things are apart“.

Con questo album termina la migliore produzione del gruppo, qui al suo apice: in Italia trovarono una certa popolarità raggiungendo addirittura i primi posti in classifica, all’estero ebbero decisamente meno fortuna. D’altronde nessuno è profeta in patria, si sa. In ogni caso, c’è troppo silenzio attorno al nome dei Van Der Graaf Generator: Peter Hammill non ha di certo meno estro e carisma di Peter Gabriel! E’ un poeta viscerale e gotico, i cui testi da soli fanno poesia. Ma la musica dei Van Der Graaf Generator non si esaurisce con la lirica: Pawn Hearts è uno di quegli album che dovrebbero essere assolutamente riscoperti, che visualizza una maturità ed una facilità di esecuzione che sembra raggiungere le altezze rarefatte dell’arte antica, senza cercare apertamente di essere difficile o “intelligente”, come molti gruppi progressive si sono forzati di fare. Questa è un album serio, e non è fatto per l’ascoltatore “casuale” o per i deboli di cuore: il suo contenuto testuale è profondo quanto la sua ardente musica.

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