Pink Floyd – A Saucerful of Secrets

Nell’agosto del 1967 venne rilasciato The Piper at the Gates of Dawn e i Pink Floyd già si trovavano al lavoro per il secondo album: con l’estromissione graduale di Syd Barrett dalla band, A Saucerful of Secrets nacque come un ibrido, con all’opera una teorica formazione a cinque (di cui la copertina non dice nulla) a testimonianza delle incertezze di quei giorni. Quando il disco uscì nei negozi nel giugno del 1968, Barrett era stato, di fatto, già sbattuto fuori da mesi (“un giorno decidemmo semplicemente di non passare a prenderlo“) ed i dubbi riguardavano piuttosto il futuro dei Pink Floyd: in questa fase di transizione, il gruppo cercò di imitare il suo fondatore e scrittore principale, ed il risultato si sente eccome.

Dopo la partenza di Barrett, venne dapprima chiamato David O’List dai The Nice, poi venne reclutato definitivamente l’amico di Syd, David Gilmour, ma la maggior parte delle persone non avrebbero scommesso un pound sulla sopravvivenza della band; nel frattempo, i Pink Floyd erano però diventati il secondo gruppo della EMI, dopo i Beatles, e così poterono permettersi il lusso di un grafico personale: fu così che ebbe inizio la storica collaborazione cosentireascoltare-A-Saucerful-Of-Secretsn lo studio Hipgnosis di Storm Thorgeson e Aubrey Powell, anche se il loro primo lavoro scontó ancora qualche ingenuità, con la foto minuscola della band persa tra tredici immagini volutamente confuse e sovrapposte (personaggi della Marvel, una ruota con i segni zodiacali, foto all’infrarosso, simboli alchemici) ad evocare i famosi “light show” del gruppo. Sulla copertina si può leggere anche la scritta “y d pinkfloyd p” ma resta il dubbio sul reale significato delle lettere iniziali: secondo alcuni, sarebbe la semplice ripetizione del nome della band, mentre secondo altri, quelle lettere starebbero per (s)yd pinkfloyd p(inkfloyd), ovvero un omaggio criptato a Syd, estromesso definitivamente nel febbraio del 1968.

Musicalmente, questo secondo LP contiene, oltre a scarti di The Piper at the Gates of Dawn, brani inediti frutto di registrazioni iniziate nell’agosto del 1967 e concluse nel maggio del 1968, sempre prodotte da Norman Smith. Più che sperimentare nuove direzioni artistiche, si cercó invece di sopperire alla mancanza della fantasia dello storico leader… fu così che Roger Waters fece valere la sua vena più geometrica e ortodossa, mentre Wright propose invece un’impostazione oscillante tra la musica pop e quella classica nei brani del proprio conio; il nuovo arrivato David Gilmour offrì il suo sostegno strumentale alla band e molta più disciplina rispetto al suo predecessore, ma la sua impronta lirica si intravede solo nella title-track, dove nella firma collettiva appare come “Gilmore”. Il risultato fu un album segnato da brani più estesi e ragionati, in un cosmic-rock destinato a mietere numerosi consensi negli anni a venire – oltre ogni lucida aspettativa –  con Waters che si mosse verso la leadership definitiva firmando i brani più interessanti, mentre Wright, più incline ad un progressive pop di stampo classico, siglò i pezzi meno convincenti del disco (destinati negli anni ad essere definiti dallo stesso tastierista come “terribili“).

ll piano iniziale era fondamentalmente quello di tenere Syd Barrett nel gruppo come membro “nascosto” – in modo non dissimile a Brian Wilson nei Beach Boys – e di fatto l’album fu il frutto di sessioni iniziate con Barrett e concluse con Gilmour, con la presenza del primo palesata soltanto in un brano (“Jugband Blues”); mentre The Piper at the Gates of Dawn era interamente dominato dalla figura di Syd, con qualche timido scorcio testuale di Richard Wright e Roger Waters, A Saucerful of Segrets è un miscuglio di ben quattro cantanti diversi (tutti, tranne Nick Mason, offrirono la propria ugola), tre scrittori (Waters è accreditato in tre canzoni, Wright in due e Barrett in una) ed un esperimento di firma collettiva sulla title-track.

Apre le danze “Let There Be More Light“, in bilico tra la psichedelia e la fantascienza e cantata da Richard Wright e Roger Waters, col ritornello affidato a David Gilmour, con quest’ultimo che negli ultimi due minuti si presenta anche col suo primo assolo nella band. Nel testo è presente un esplicito riferimento a “Lucy in the Sky with Diamonds” dei Beatles, mentre il testo ricalca la descrizione cinematografica della discesa di un veicolo spaziale extraterrestre nella stazione di RAF Mildenhall, a nord-est della città natale di Waters, Cambridge (“Then at last the mighty ship descending on a point of flame, made contact with the human race at Mildenhall“). La nostalgica Remember a Day” venne invece composta per The Piper at the Gates of Dawn col titolo “Sunshine” ed ha inizio con Barrett alla chitarra slide per essere poi conclusa mesi dopo; il brano venne suonato dal vivo solo come bis in un concerto del maggio 1968 e, quarant’anni dopo, nel settembre 2008, da David Gilmour, in memoria di Richard Wright da poco scomparso. Una curiosità: a quanto pare, uno sconsolato Nick Mason non riusciva a venirne a capo con le sue parti di batteria e così esse furono eseguite dal produttore Norman Smith, che contribuì anche su alcuni cori.

Sulla linea dello space-rock di “Interstellar Overdrive”, la lunatica “Set The Controls for the Heart of the Sun” perde di stravaganza ma acquista qualcosa in compattezza; questa traccia venne eseguita col metodo “taglia e cuci” di William Burroughs (dal quale è preso anche il titolo), applicandolo ad un libro di poesie cinesi della dinastia Tang che viene utilizzato nella parte testuale; si tratta di un pezzo freddo ed oscuro, con la sorprendente presenza di Mason in primo piano mentre Wright e Gilmour sono minacciosamente dediti ai loro effetti a pedale, rimanendo misteriosi per tutta la durata della traccia, che pare quasi plasmarsi in un incantesimo segreto ed ossessionante, dando la sensazione che ci sia qualcosa di non rivelato (“Breaking the darkness waking the grapevine, one inch of love is one inch of shadow: love is the shadow that ripens the wine“); strumentalmente, essa contiene alcune parti di chitarra suonate sia da Gilmour sia da Barrett, e questo la rende di fatto l’unica canzone, nella carriera dei Pink Floyd, in cui tutti i cinque componenti hanno suonato assieme. C’è stata però una lunga controversia sul contributo di Syd su questo brano: secondo il libro di David Parker “Random Precision: Recording the Music of Syd Barrett, 1965-1974“, che documenta ogni sessione di registrazione della EMI, la versione che appare su A Saucerful of Secrets è stata presa da un take dell’8 agosto 1967 ed è di Barrett, non di Gilmour, la parte principale di chitarra, mentre quest’ultimo ribadì più volte che alcune sue sovraincisioni vennero aggiunte più tardi rispetto a quei nastri.

La tagliente e ruvida “Corporal Clegg” è la prima di una lunga serie di divagazioni sui temi bellici di Waters, che saranno ampiamente sviluppati dieci anni più tardi all’interno del mastodontico The Wall: con tanto di una marcetta militare suonata al kazoo nel mezzo, il testo narra sarcasticamente la storia di un soldato che perde una gamba durante la Seconda Guerra Mondiale – un fatto che, rivelò in seguito Roger, venne preso da spunti autobiografici: “Corporal Clegg tratta di mio padre e del suo sacrificio nella seconda guerra mondiale. È sarcastica l’idea della gamba di legno vista come vinta nella guerra, come un trofeo.” I Pink Floyd calano però l’asso dalla manica col pezzo collettivo di “A Saucerful of Secrets“, una travolgente ed audace summa delle ispirazioni del gruppo in forma di suite. Originariamente provata in un concerto ed alla BBC con diversi titoli (tra cui “The Massed Gadgets of Hercules“) farà poi parte della suite “The Journey” e diverrà un punto fermo delle esibizioni dal vivo. Per Gilmour fu, non a caso, il primo mattone storico del muro dei Pink Floyd: divisa in quattro parti che simboleggiano i vari momenti di una battaglia, il movimento di apertura (“Something Else“) è essenzialmente un collage sonoro che cresce d’intensità fino a fossilizzarsi nell’atmosfera opprimente della seconda sezione (“Syncopated Pandemonium“), in cui i tamburi reiterati di Mason divengono il crocevia per un’improvvisazione cacofonica; il ritorno alla calma è un momento buio e tempestoso (“Storm Signal“), con l’organo di Wright affiancato dal mellotron e dai cori celesti, che conducono infine ad un finale luttuoso e funereo (“Celestial Voices“). Una persona che non era soddisfatta della canzone era Norman Smith (“Non si può fare, è troppo lunga. Dovete scrivere canzoni di tre minuti“) ma il risultato fu indubbiamente uno dei pezzi più rappresentativi della band.

D’altrocanto, la melodrammatica psichedelia di “See Saw” é il momento più debole e pesante del disco, un brano scritto da Wright ed arrangiato male, farcito di mellotron ed arrangiamenti d’archi, la cui precarietà è palesata anche nel titolo auto-ironico originale “The Most Boring Song I’ve Ever Had”, mentre la conclusiva “Jugband Blues” è l’ultimo frammento di Barrett nei Pink Floyd, registrato a fine 1967 per un possibile terzo 45 giri e poi accantonato per divergenze col produttore; c’è tutto Syd al suo interno: dall’andamento irregolare dei tempi al bizzarro arrangiamento con gli ottoni della banda dell’Esercito della Salvezza, che Barrett avrebbe voluto improvvisasse (disse loro “potete suonare quello che volete!“) mentre Norman Smith chiedeva almeno un minimo di partitura. In un primo tempo, la EMI rifiutò il brano ma poi venne recuperato nonostante il finale un po’ frettoloso (tipico, peraltro, del repertorio solista di Barrett): si tratta di una canzone importante, perché è quasi una lettera di dimissioni del membro fondatore dei Pink Floyd, un’auto-diagnosi stesa come un’epistola senza scrupoli indirizzata agli altri membri della band; in primo luogo abbiamo le linee “and I’m grateful that you threw away my old shoes, and brought me here instead dressed in red and I’m wondering who could be writing this song” che suonano come un sarcastico ringraziamento ai compagni, ma ancora più pungenti sono le ultime due righe che dicono in modo  metaforicamente laconico tutto quello che c’è bisogno di sapere sulla partenza di Syd dai Pink Floyd: “and what exactly is a dream? And what exactly is a joke?“.

A Saucerful of Secrets è un album molto sottovalutato: magistralmente interpretato, fu un punto di partenza per molte band e per gli stessi Pink Floyd, che proprio da qui iniziarono ad essere meno psichedelici ed improvvisativi e più votati al progressive ponderato… Tutto il resto è storia, con la nuova formazione che si lasciò alle spalle i tentativi d’imitazione di Barrett, sfornando una serie di album sempre più convincenti. 

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