Sam Gopal – Escalator

Era una notte buia e nebbiosa quando, leggendo tra le notizie del giorno, vi trovavo incredula la morte di Lemmy Kilmister. Partendo dal presupposto che solo poche settimane fa scrivevo convinta come Gaio Muzio Scevola della mia idiosincrasia patologica verso questo personaggio (e la morte non me lo rende affatto più simpatico!), i miei nemici ora sono ufficialmente avvisati!

Minacce – più o meno reali – a parte, in questo ormai-anch’esso-quasi-defunto 2015, sono morti grandi artisti come Daevid Allen, Gail Zappa, Kim Fowley, Andy Fraser, Edgar Froese, Mike Porcaro e Chris Squire… solo per fare alcuni nomi… E pochi, davvero pochissimi, giornalisti si sono presi la briga di scrivere un misero articolo sulla loro scomparsa. In tutta risposta, in questo mondo necrofilo e malato, si piange per uno che cantava di stupide donne e di culetti in un bordello… Per carità, tenete fuori dalle mie orecchie i Motorhead!

So di essere soltanto una femminuccia in mezzo ad una moltitudine di necrofili e maniaci sessuali. Oltre che da un miliardo e mezzo di cinesi (non che questi dati spesso coincidano). Però su alcune cose sono intransigente… Ma mi sto dilungando su altre tematiche che meriterebbero uno spazio a parte. Uno spazio, probabilmente, dalle dimensioni enciclopediche.

Passiamo a questo ignoto progetto di Sam Gopal, uno dei capitoli forse più felici della carriera di Lemmy Kilmister, all’epoca semplicemente un ex-roadie di Jimi Hendrix in cerca di identità, e forse proprio per questo si faceva chiamare Ian Willis, prendendo il cognome dal patrigno. Il gruppo deve la sua sigla al suo fondatore, il signor Sam Gopal, un suonatore di tablas malesiano che nel 1962 decise di trasferirsi a Londra, fondando nel 1967 i suoi Sam Gtumblr_ktrxl4RuaO1qzd4l7opal Dream assieme a Andy Clark, Mick Hutchinson e Pete Sears, diventando un elemento di crescente interesse nella scena psichedelica londinese. Nonostante un discreto successo, Sam Gopal rimase solo già nel 1968, ma prontamente ricreò attorno a sè una nuova line-up, formata da Roger D’Elia (chitarra), Phil Duke (basso) e Ian “Lemmy” Willis (voce e chitarra)Il risultato di questo connubio multi-etnico è un suono psichedelico ed esotico, filtrato sicuramente da una registrazione sporca che comunque non ostacola l’esperienza d’ascolto. Scritto in una sola notte da Lemmy sotto l’effetto della metedrina, Escalator venne rilasciato dalla piccola etichetta Stable nel 1969, in undici tracce caratterizzate da un rock psichedelico ruvido in cui l’influenza di Jimi Hendrix viene macinata con un blues duro e sofferente, scandito da una sezione ritmica del tutto particolare, data l’assenza completa dei tamburi e l’uso smodato delle tablas.

Iniziamo a salire questa deragliante “scala mobile” con lo strisciante lo-fi di “Cold Embrace“, in cui l’agonizzante stato d’animo espresso dal testo viene scalfito con un ritmo strisciante e fastidioso, che pare quasi entrare sottopelle. Sulla stessa linea melodica si innesta poi “The Dark Lord“, in cui il riferimento è ovviamente a Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor, mentre nel poema bruciante di “The Sky is Burning” la voce anelastica di Lemmy rievoca dolcemente un effimero amore. Lo spavaldo blues di “You’re Alone Now” proietta in seguito l’ombra dei Black Sabbath, una durezza presto soppiantata dalle peregrinazioni allucinogene di “Grass” e dal baldanzoso teorema amoroso di “It’s Only Love“, nonostante quel retrogusto amaro e dolente fatichi ad essere lavato via, rimanendo lì come una macchia ben nascosta ma ancora visibile sotto la luce del sole.

La title-track “Escalator” si erge come una delle tracce più dure dell’album, farcita dalle distorsioni delle chitarre elettriche che vengono sminuzzate dalle epilettiche tablas di Sam Gopal; proseguendo, troviamo altri due brani interessanti come la ballata arrabbiata di Angry Faces” e Midsummer Night’s Dream“, un lisergico sogno di mezza estate annegato nel classico riff di “You Really Got Me”, mentre chiudono il disco la stregante cover donovaniana di “Season of the Witch” e l’esotica poesia di “Yesterlove“, in cui le influenze indiane affiorano prepotentemente a galla, tra anime urlanti ed orizzonti in lontananza.

Escalator non è sicuramente un album per gli amanti dei Motorhead, nonostante si possa intravedere qualcosa del futuro signor Lemmy: è piuttosto un disco per tutti i nostalgici di quel rock psichedelico e grezzo che solo gli intramontabili ed intrepidi anni Sessanta hanno saputo partorire. Buon ascolto!!

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