The Soft Machine – Volume Two

Novembre del 1968. Quando uscì nei negozi The Soft Machine, il gruppo si era difatti ormai sciolto, ma l’inaspettato ingresso nella top 40 americana costrinse i musicisti a ricomporsi e cosí, il 29 marzo 1969 al “Paradiso” di Amsterdam, eseguirono quasi tutto il secondo album dal vivo, in assoluta anteprima.

Ma cosa era successo durante i quattro mesi dal temporaneo scioglimento all’uscita del secondo LP? Tutto iniziò quando Kevin Ayers decise di lasciare la band dopo l’estenuante primo tour di supporto alla Jimi Hendrix Experience, preferendo le calde e rilassanti spiagge del Mediterraneo, venendo sostituto nella seconda tournèe dal futuro Police Andy Summers. Volume Two venne registrato dopo che la band aveva girato gli Stati Uniti con Jimi Hendrix, trovando una certa fama e, per colmare il vuoto lasciato da Ayers, venne assunto il roadie Hugh Hopper. Mentre Kevin era un bassista più libero ed improvvisativo, Hugh portò sul tavolo le sue competenze tecniche più solide, facendo emergere il suo basso distorso tra gli strumenti in evidenza del nuovo suono dei Soft Machine: una delle cose che si notano subito su questo album è proprio come il basso sia stato spesso sottoposto ad un fuzz-box, una distorsione poi largamente addottata anche da Mike Ratledge per il suo organo.

La perdita di Ayers ebbe peró anche un altro effetto, lasciando Robert Wyatt come unico voimg202calist: proprio per questo, l’album vide una notevole espansione del suo uso della voce come strumento, importante quanto la sua batteria, ed suoi saltellanti lamenti forniscono una struttura ulteriore alla canzone. Quindi, ricapitolando: nei nuovi Soft Machine, Robert Wyatt si snodava – rigorosamente a petto nudo! – tra batteria e voce, Mike Ratledge rimase a bordo della macchina morbida come tastierista, Hugh Hopper divenne il nuovo bassista e, come guest-star, troviamo agli strumenti a fiato il fratello di Hugh, Brian Hopper. Se alcune parti di questo album contengono ancora gli ingredienti delle selvatiche jam del disco d’esordio, il suono generale è più stretto e disciplinato, nonostante Volume Two sia ancora stato composto nello stesso stampo del loro primo disco, mentre l’influenza di Robert Wyatt è ancora forte nei testi assurdi e patafisici; anche Hugh Hopper si ritagliò una buona fetta del songwriting e, conoscendo le sue composizioni più serie degli anni a venire, è stranamente responsabile di molti di brevi brani divertentiD’altra parte, Mike Ratledge si fa portavoce della tracce più “pesanti” del disco ed è il firmatario delle due composizioni più lunghe contenute al suo interno.

In Volume Two sono 61RElII7XwLpresenti ben 17 tracce, per una durata di poco più di mezz’ora. Tuttavia, questo album può essere ascoltato come un intero pezzo, almeno in due parti, dato che ogni lato del disco ha il proprio titolo: “Melodie Rivmic“, il primo (scritto per lo più da Hugh Hopper e Robert Wyatt) e “Esther’s Nose Job“, il secondo, più orientato al jazz, e composto quasi interamente da Mike Ratledge. Come per il primo album, non ci sono pause tra le canzoni ed ogni pezzo riempie l’insieme, permettendo così a Volume Two di essere apprezzato come un’unica grande suite, in cui la frivolezza di alcuni brani si amalgama con le parti più sperimentali degli altri, sempre con una buona dosa di divertimento, come si può evincere anche dai curiosi titoli delle singole tracce. 

La stravaganza si esercita tutto gas già nelle prime due brevi composizioni, convertendosi nella giocosità infantile di Pataphysical Introduction (Part I)” e “A Concise British Alphabet (Part I)“, mentre la prima traccia degna di nota è “Hibou, Anemone and Bear“, sei minuti di infatuazione dada-rock, con una buona sintonia tra piano, organo, batteria e basso. La musica cambia poi drasticamente ed alcuni brani durano soltanto pochi secondi, come frammenti di un pandemonico continuum che tesse insieme tutto il lato A: così, a forma libera, “A Concise British Alphabet (Part II)” e “Hulloder” suonano come uno strambo matrimonio tra il rock canterburiano ed il pop psichedelico, mentre la più lunga “Dada Was Here” si caratterizza per il suo testo spagnolo, in memoria delle estati trascorse da Wyatt con la famiglia a Maiorca, componendosi in gran parte di piano, basso e batteria, dando vita ad armonie abbastanza accattivanti, con una cadenza che viene spesso interrotta da lievi pause, come se la band fosse immersa nell’attesa di qualcosa.

Dopo il mistero languido di “Thank You Pierrot Lunaire“, in “Have You Ever Bean Green?” i Soft Machine omaggiano Jimi Hendrix e la sua band, che gli aveva permesso di aprire il tour statunitense dandogli una notevole esposizione mediatica, mentre in “Pataphysical Introduction (Part II)” i ringraziamenti sono brevemente indirizzati a Brian Hopper e all’ingegnere del suono George Chkiantz. In “Out of Tunes” il lavoro di squadra è meglio definito, con i flauti acrobatici e la voce malinconica di Wyatt che soffia come un vento ululante, mentre  un altro punto culminante è rappresentato da “As Long as He Lies Perfectly Still“, in cui ancora la voce di Wyatt viene usata come uno strumento cromato, importante quanto la sua batteria. La folle malinconia di Dedicated to You But You Weren’t Listening” è un atipico brano acustico che Robert avrebbe poi utilizzato (cambiato però anche nel titolo) per il suo disco d’esordio nei Matching Mole, ma la stranezza torna poi a farsi sentire prepotentemente su “Esther’s Nose Job“, precursore diretto di Thirdsuddiviso in una serie di aneddoti musicali e pochi versi. La prima parte Fire Engine Passing with Bells Clanging” è in realtà un collage di strumenti in competizione che sfocia direttamente in Pig“, un capitolo che finisce ancor prima di trovar il tempo di far cadere i denti da latte. In seguito, il jazz bizzarro di Orange Skin Food” viene superato in meno di due minuti, lanciandosi a capofitto nella scoppiettante A Door Opens and Closes“, mentre il finale è una canzone decisamente più lunga, Returns to the Bedroom“, dove è possibile già intravedere alcuni segni della futura direzione musicale dei Soft Machine, più votata al jazz e con una minima parte vocale.

Descrivere Volume Two risulta sempre difficile, non essendo strutturato come un canonico LP: indubbiamente, la struttura dell’album risulta più simile ai lavori di Frank Zappa, intesi come un flusso costante di musica. Questo secondo lavoro dei Soft Machine è comunque la continuazione logica del debutto, ma invece di limitarsi a disfare il modello psichedelico dell’esordio, la band lo mantenne come prototipo, espandendone semplicemente le tendenze d’avanguardia e jazz-fusion: il risultato è un altro disco superbamente composto, che necessita di una certa attenzione d’ascolto per essere pienamente coinvolti nella sua patafisica magia, ma che si pone come un ottimo successore dell’esordio ed un ponte logico con l’intruglio jazz di Third.

In definitiva, l’unica cosa poco originale dei Soft Machine rimangono sicuramente i titoli dei loro album!!

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