Kevin Ayers – Joy of a Toy

Kevin Ayers è uno di quei tanti geni caduti un po’ nel dimenticatoio: canterburiano d’adozione, entrò a casa di Robert Wyatt in qualità di fidanzato della sorella di Pye Hastings, finendo per fondare i Soft Machine e poi abbandonarli dopo un solo album. Logorato dei ritmi del tuor di supporto alla Jimi Hendrix Experience, Ayers vendette infatti il suo basso a Mitch Mitchell e si trasferì per un periodo alle Baleari: nonostante la sua leggendaria pigrizia e la propensione per uno stile di vita incompatibile con qualsiasi attività, Kevin fu paradossalmente il primo tra i canterburiani ad esordire con un disco solista. E che disco!

Complice del suo esordio discografico anche lo stesso Jimi Hendrix, che regalò ad Ayers una chitarra acustica Gibson J-200, con la promessa di continuare il suo incantevole songwriting. Kevin allora decise di riparare in un piccolo appartamento a Londra, dove compose ed arrangiò un intero LP, tra vecchi spunti dei Soft Machine e canzoni scritte nel suo esilio insulare, presentandolo poi a Malcolm Jones della nascente Harvest: Joy of a Toy venne registrato nel 1969 da Peter Jenner per la somma – allora esorbitante – di £ 4.000. 

Il titolo si riferisce agli strumenti-giocattolo usati per comporre il disco, ma anche allo stravagante modo da alchimista di Ayers di miscayers-coverelare in un unico pentolone un sense of humour infantile, una nostalgica ed adulta malinconia, la sensualità dei paesi esotici, l’elementarità dell’arte rupestre e la psichedelia, in un unico gingillo di pop canterburiano. Una serie impressionante di strumenti sono stati qui utilizzati – tra cui ottavini, oboi, kazoo, trombette, fischietti e violoncelli – con un conseguente elevato numero di collaborazioni: la line-up di base per la maggior parte dei brani è completata dagli ex Soft Machine Robert Wyatt (batteria), Hugh Hopper (basso) e Mike Ratledge (organo), ma vi è un numero elevato di ospiti come Paul Minns (oboe) della Third Ear Band e Paul Buckmaster (violoncello), per citare soltanto i più noti, mentre David Bedford arrangia il tutto col suo filo di Arianna dalla fibra progressive.

L’opener “Joy of a Toy Continued” è il giusto anello di congiunzione tra il passato ed il presente (il titolo fa infatti anche riferimento ad un vecchio brano dei Soft Machine, presente sul primo LP omonimo): questa scherzosa marcia inizia con un fischietto fastidioso per poi motivare una cantilena infantile senza pretese e senza parole. La seguente Town Feeling” si fa leggermente più seria, battezzandosi con una graziosa melodia dai tocchi barocchi e che amorevolmente incorpora violoncello ed oboe ad un lick quasi improvvisativo della chitarra di Ayers. Le influenze R&B di Wyatt alla batteria sono ben evidenti e donano una ritmicità affascinante a questa magica sezione. 

The Clarietta Rag” è un altro momento di grande pop canterburiano, che si avvicina pericolosamente al caldo genere del Ragtime, con un lussuoso trombone ed una chitarra con qualche effetto fuzz che conferiscono una dinamica piuttosto peculiare. Non si nota alcuna strofa o ritornello perché questa pista oscilla in un ritmo frenetico, sostenuto dal jazz del mellotron di Bedford. L’onirica Girl on a Swing si scioglie in una dolce melodia, dove ancora una volta il mellotron spicca come una fanfara; il tutto viene farcito con fragili segmenti di clavicembalo e vibranti chitarre elettriche, con un pianoforte schubertiano che funge da romantico collante. 

Il pezzo più rappresentativo è decisamente “Song for Insane Times” che incorpora l’intera line-up dei Soft Machine, rendendo la melodia inevitabilmente più jazz, con un suono fedele alla matrice canterburiana in tempi dispari (Wyatt imposta un ritmo davvero stretto) ed una torsione maniacale verso la fine (dove Ratledge impazza sul suo organo); oltre agli Who, pochissimi musicisti rock hanno espresso così bene la loro delusione per la cultura degli anni Sessanta come Ayers in questa canzone (“People say they want to be free, they look at them and they look at me but it’s only themselves they are wanting to see and everybody knows about it). Penso sia l’unico esempio dei Soft Machine in una canzone di ispirazione pop-jazz senza troppi sofismi, e curiosamente suona più come i Caravan… Che risvolto paradossale!
Stop This Train (Again Doing it) è un esperimento pieno di trucchi (effetti del giradischi, la voce resa attraverso un telefono, strumenti inconsueti) che qui vanno a giustapporsi in una canzone impertinente; l‘assolo maniacale che percuote la seconda metà del tracciato intensifica la tossicità di uno dei migliori viaggi lisergici su vinile. La deliziosa Eleanor’s Cake (Which Ate Her) è, nonostante il titolo eccentrico, una elegante ballata acustica, con brillanti tocchi orchestrali ed un flauto cadenzato che accompagna la voce solista di Ayers (“Don’t be sad and down. Take another look around, maybe what you’ve lost you’ve found“). L’inquietante ninna nanna Lady Rachel, dedicata alla figlia, posterizza invece i colori della precedente traccia, incorporando nel buio qualche misteriosa goccia di oboe; risulta faticosamente surreale grazie alla monotonia alienante della chitarra elettrica, qualche volo di clarinetto e tintinnanti effetti sugli organi. 

La seguente Oleh Oleh Bandu Bandong non rompe l’incantesimo in cui siamo caduti, nonostante venga cantata in Malay (in ricordo degli anni in Malesia con la famiglia, dove il patrigno di Kevin lavorava per il governo inglese) ed è forse l‘unico vero cenno verso uno stile più progressivo. E’ chiaramente l’esperimento ritmicamente più impegnativo che Kevin Ayers ha mai fatto, con un canto infausto in 7/4 e la collaborazione di due “Muse Inquietanti”: sono infatti le Ladybirds del Benny Hill Show a cantare una strofa dal ritmo serrato. Ad un certo punto, dopo strani effetti del nastro, David Bedford su un pianoforte a coda viene coinvolto in un jazz nevrotico (che ricorda quasi Dave Stewart negli Egg), camminando senza sforzo sull’insidioso crinale tra diletto e disastro: nel finale una devoluzione in pura avanguardia riporta alla mente “Aladdin Sane” di Bowie, ma qui è tutto totalmente “insane”. Fuori dal pantano futuristico, troviamo ristoro nella conclusiva “All This Crazy Gift of Time“, un autentico folk alla Lindisfarne con armonica e chitarra acustica, in un pezzo d’epoca perfettamente sbiadito e travestito, un’ode pigra al vino ed alla vita che funge da ultimo ballo in maschera. Ma che chiusura!

Dietro a Joy of a Toy si intravede tutta la sperimentazione lisergica della Londra coeva, dove nei pub molte band cercavano di elevare la loro musica a “Gesamtkunstwerk” (sì, suona blasfemo dirlo in tedesco, ma ahimè non esiste un termine così completo e corrispondente in altre lingue); fra tutti cito i Pink Floyd di Syd Barrett perchè proprio con quest’ultimo – e due dei Caravan – Kevin Ayers registrò nel 1969 quella che sarà in seguito pubblicata come bonus track (“Religious Experience) in questo album, ma che venne originariamente rilasciata nel 1970 su 45 giri col titolo “Singing a song in the morning.

Nel 1971 Kevin Ayers aggregó a sè una formazione stabile, i Whole World, con David Bedford alle tastiere, il jazzista Lol Coxhill al sax, un giovane Mike Oldfield alla chitarra e Mick Fincher alla batteria: con questa line-up – e lasciandosi alle spalle i Soft Machine -, inciderà il successivo capolavoro Shooting At The Moon. Ne parleremo ancora, in un altro capitolo… Intanto godiamoci la beata gioia di un giocattolo!

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