Savoy Brown – Getting to the Point

I Savoy Brown furono una blues band inglese ignorata in patria ma con un forte seguito americano, nata a Londra nel 1965 come Savoy Brown Blues Band, per opera del giovane chitarrista Kim Simmonds e dell’armonicista John O’ Leary che si conobbero in un negozio di dischi della zona di Soho; il duo, assieme a Ray Chappell (basso) e due musicisti di colore (il cantante Brice Portius ed il batterista Leo Mannings) esordirono con i 45 giri di “I Tried” e “Can’t Quit You Baby”, due singoli pubblicati dalla Purdah di Mike Vernon (già al lavoro con Fleetwood Mac, John Mayall e Ten Years After) col contributo del pianista Bob Hall; proprio grazie al produttore, la formazione approdò in seguito alla Decca con un album di classici, da Willie Dixon a B.B. King, intitolato Shake Down (1967), facendosi nel contempo notare come gruppo spalla a John Mayall e ai suoi Bluesbreakers. Abbreviata la sigla in Savoy Brown, l’organico venne poi completamente rinnovato con l’arrivo di Chris Youlden (voce), Dave “Lonesome” Peverett (chitarra ritmica), Rivers Jobe (basso) e Roger Earl (batteria).

Registrato Gettingtothepoint_500X500ai Decca Studios di Londra nel marzo 1968 e rilasciato nel luglio dello stesso anno, questo Getting to the Point presenta ancora una forte influenza del Chicago Blues, ma segna anche l’inizio di un originale sodalizio tra il chitarrista Kim Simmonds ed il ruvido cantante Chris Youlden, il cui peculiare aspetto (cappello a cilindro, sigaro, monocolo) si poneva quasi in ridicolo contrasto con le sue radici blues; mentre nella copertina della versione inglese del disco sbucava Kim Simmonds con gli occhiali tondi e l’immagine di un uomo di colore in ogni lente, la cover statunitense veniva invece sigillata in maniera più “politically correct”, con un labirintico collage di opere d’arte; Kim cercò in seguito di chiarire cosa il disegno di copertina originale avesse cercato di evocare al settimanale Melody Maker: “La nostra cover voleva dimostrare che, anche se siamo bianchi, vediamo le cose allo stesso modo di una persona di colore, ma per alcuni motivi questa era stata cambiata“.

Già dalla prima nota dello slow di “Flood in Houston” si capisce che si sta per ascoltare qualcosa di molto suggestivo, con la chimica della band che viene subito smascherata: la voce di Youlden è graffiante (spesso paragonata a quella del grande Bobby Bland), le chitarre di Peverett e Simmonds si incastrano alla perfezione senza surclassarsi, mentre Jobe e Earl incollano i cocci creando un’unità naturale e fisiologica; la seguente traccia è la vibrante “Stay with Me Baby“, che col suo boogie maniacale ed il pianoforte ascendente di Bob Hall, è una canzone orecchiabile difficile da fare uscire dalla testa, mentre la prima cover del disco, “Honey Bee“, dell’originale di Muddy Waters, vede SimmondSavoy-Brown-Getting-To-The-Po-131191s e Peverett fornire l’unico sostegno alla rilettura sensibile del brano a opera di Youlden, con Peverett che secerne la sua ispirazione al blues di Chicago nella sua seconda chitarra mentre Simmonds si concentra piuttosto sul suo miglioramento ascetico; questa canzone, pur piacevole, è però anche emblematica del vizietto ormai consolidato dei Savoy Brown di dilungarsi a volte eccessivamente sulla traccia: in quasi 7 minuti di esecuzione, essa risulta a mio parere quasi monotona. La strumentale “The Incredible Gnome Meets Jaxman” serve come vetrina alle perizie della band, e pur essendo un bel pezzo di rock’n’roll, non lo ritengo uno dei più indimenticabili del repertorio dei Savoy Brown.

La disperata “Give Me a Penny” sembra aggrapparsi direttamente sulle ginocchia dell’amata, con gli strascichi della chitarra di Peverett e la voce prostrante di Youlden che si divaga in suppliche assurde: “When I go to work and I come home in the evening and there ain’t nobody there, I feel so disatisfied: oh give me a penny baby, give me a penny baby“. Uno dei punto salienti è la sussurrata “Mr. Downchild” (neanche lontanamente correlata a quella di Sonny Boy Williamson), che evidenzia le credenziali della band a tutti gli effetti, senza gli eccessi del genere, ma con una grande maestria nell’evocare con semplicità un’atmosfera nostalgica, anche grazie ai fulminei interventi del pianoforte di Bob Hall che cadono veloci come lacrime invisibili (“And I’m a downchild baby, and I’ve been down since I was born, won’t somebody please, help the downchild?“). Il boogie di “Getting to the Point” è un altro dei forti momenti della coppia Simmonds-Youlden, che qui mostra un palese debito a Freddie King, pur senza scimmiottare apertamente il chitarrista texano, mentre nella vagabonda “Big City Lights” trova maggior spazio il pianista Bob Hall, accreditato anche come co-autore del brano.

Chiude il disco con fragore “You Need Love“, cover di Willie Dixon (scritta per Muddy Waters) e madre della celebre “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin; il vecchio Willie Dixon scappa via col suo blues a dodici battute, mentre Youlden si concentra sull’oggetto dei suoi desideri prima che Simmonds prenda il sopravvento con un viscerale assolo di chitarra, lasciando poi spazio al tonante basso di Jobe; una pulsante sezione di batteria condotta da Earl – senza eccessiva turbolenza – ci conduce poi in un duello mistico tra la chitarra di Simmonds e quella di Peverett, elevando la canzone così al suo culmine naturale; questa traccia non ha forse la forza agghiacciante di alcune cover contenute in Shake Down, ma è comunque vibrante, in particolare modo nel basso risoluto di Jobe, che non fa virare la traccia troppo fuori dai binari originali. 

Alla fine del 1968, Rivers Jobe lasciò il posto a Tone Stevens, mentre Bob Hall si unì ai vecchi compagni Leo Mannings, John O’Leary e Bob Brunning nella Brunning-Hall Sunflower Blues Band. I Savoy Brown rimaneggiati nella formazione intrapresero in seguito un lungo tour negli Stati Uniti, culminato con l’esibizione ai due “Fillmore”, per poi pubblicare nel 1969 il loro disco più convincente, Blue Matter, spinto tra focosi live ed incisioni in studio.

Getting to the Point è un album consigliato a chi ha voglia di un blues insolito, originale ed irriverente.

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