Robert Wyatt – Rock Bottom

Se The End of an Ear è stato il risultato di una profonda crisi artistica coi Soft Machine, Rock Bottom fu il frutto di un grosso turbamento personale. 

Nell’autunno del 1972, Robert Wyatt sciolse i Matching Mole e seguì a Venezia la futura moglie Alfreda Benge, impegnata sul set del film “Un Dicembre Rosso Shocking” di Nicolas Roeg, con l’amica Julie Christie: qui, nell’uggiosa isoletta della Giudecca, la storica compagna stimolò Robert a comporre un nuovo disco, regalandogli un piccolo organo ed un magnetofono, con i quali Wyatt incise alcuni bozzetti musicali per la prima parte di Rock Bottom.

Di ritorno in patria, nella primavera del 1973 Wyatt mise a disposizione le musiche composte per una nuova formazione dei Matching Mole, sviluppandole ulteriormente nel suo appartamento a Londra, al ventunesimo piano di un palazzone popolare che fu in seguito demolito (“mi piace pensare che un po’ dello spirito di quelle canzoni stia lassù per aria, da qualche parte“); ma il primo giugno 1973 avvenne la tragedia che segnerà per sempre la sua vita: alla festa di compleanno di Lady June, Wyatt cadde da una finestra del terzo piano, riportando la frattura della spina dorsale e rimando paralizzato dalla vita in giù. Non potendo più garantire la sua presenza in una band, abbandonò il progetto dei Matching Mole, ma rimase comunque concentrato sulla musica del nuovo album, su cui continuò a lavorare durante i sei mesi di degenza “tra visitatori, operazioni e trambusto ospedaliero”, suonando sul pianoforte che si trovava nella sala delle visite; avrebbe in seguito affermato: “se non altro, essere paraplegico mi ha aiutato con la musica, perché stare in ospedale mi ha lasciato libero di sognare e di pensare veramente attraverso la rwrockbottom1974musica“.

All’uscita dall’ospedale, Robert andò ad abitare dall’amica spagnola Delfina a Little Bedwyn nelle campagne del Wiltshire, insieme ad Alfreda che gli fece trovare la casa equipaggiata di quanto serviva per registrare: così il disco venne completato in quelle quattro mura nel giro di tre mesi, grazie agli studi itineranti Manor Mobile, alla produzione dell’amico Nick Mason dei Pink Floyd e all’ingegnere del suono Steve Cox. Il disco venne infine pubblicato dalla Virgin Records il 26 luglio del 1974, lo stesso giorno in cui Robert sposò Alfreda:

Quando lasciai l’ospedale, ero pronto a registrare, ma ora non avevamo un posto in cui vivere. Una gentile amica, Delfina, ci prestò un cottage compatibile con la sedia a rotelle nel Wiltshire. Là, all’inizio del 1974, iniziai a registrare con il Mobile Studio della Virgin Records parcheggiato nel campo vicino, mentre un asino ragliava in sottofondo. In primavera, trovammo una stanza a Londra dove mi preparai ai contributi degli altri musicisti che furono registrati e mixati ai Manor Studio e alla CBS. Il 26 luglio del 1974, (il 21° anniversario dell’attacco a Moncada, la prima azione che portò poi alla rivoluzione cubana), uscì Rock Bottom, e io sposai Alfie, e vivemmo felici e contenti“.

L’8 settembre successivo, l’album fu promosso con un grande concerto al teatro Drury Lane di Londra, a cui parteciparono alcuni tra gli amici della scena (o non-scena!) di Canterbury: l’evento fu organizzato all’insaputa dello stesso Wyatt dall’allora proprietario della Virgin, Richard Branson, che contattò i vari musicisti che collaborarono al disco – con l’aggiunta di Dave Stewart e Julie Tippetts – sostenendo che Robert teneva molto alla loro presenza (dalle registrazioni del concerto nacque l’album live Theatre Royal Drury Lane, pubblicato solo nel 2005 dalla etichetta Hannibal Records).

Su suggerimento di Alfreda, che trovava le precedenti opere di Wyatt troppo cariche, Robert optò per toni più calmi ed ispirati, con frequenti spazi fra le lunghe note che esaltano le sue qualità vocali (“la voce più triste del mondo” secondo la stampa inglese). Le sue condizioni fisiche gli imposero di registrare separatamente gli strumenti e la voce, sulla quale poté concentrarsi con maggiore profitto, in una ricerca vocale che si manifestò anche con l’utilizzo di diverse parole da lui stesso inventate: alimentato dalla motivazione della nuova libertà musicale che aveva appena trovato sotto la sua scomoda condizione, ed ispirato inoltre  dalle drammatiche circostanze che avevano delineato la sua vita passata, Robert Wyatt ritrae su supporto vinilico un paesaggio di malinconia sognante, una catarsi consapevole ma mai depressa. C’è un senso di liberazione costante che si sviluppa in basi ricorrenti fino al sollievo finale, quando le note svaniscono nel vuoto: Wyatt contempla il suo dramma personale e impara a rivivere la sua vita con nuovi termini, tramite accordi di pianoforte venati di jazz, il suo inseparabile organo Riviera e, soprattutto, il suo canto lirico, tre veicoli perfetti per questa intima testimonianza. 

Musicalmente, Rock BottomRobertWyattRockBottomneu_zps2b1e8134 sta a cavallo tra la linea del suono di Canterbury, con tutte le sue stranezze e le inclinazioni free-jazz, e le tendenze d’avanguardia a pieno titolo che Wyatt avrebbe abbracciato più tardi nella sua carriera. I musicisti che collaborano in qualità di ospiti solo gli amici di sempre: Richard Sinclair e Hugh Hopper al basso e Laurie Allan alla batteria partecipano in ogni traccia, mentre su alcuni brani troviamo Mongezi Feza (tromba), Ivor Cutler (voce), Gary Windo (clarinetto, sax), Mike Oldfield (chitarra) e Fred Frith (viola). La musica è, a volte, piuttosto impegnativa da ascoltare, spesso leggiadria ma altrettanto spesso anche inquietante, quasi atonale: si tratta di un profondo e struggente infuso nella mente sconvolta di Robert, con testi che virano dalla pura poesia all’autentica bizzarria.

È lo stesso Wyatt ad indicare il rapporto simbiotico tra Rock Bottom ed il mare, nelle note di una delle edizioni in cd edite della Rykodisc: “Questa musica cominciò a nascere a Venezia, durante l’inverno del 1972, sull’isoletta della Giudecca in un vecchio palazzo che guarda alla laguna“. Il titolo allude proprio al fondo (“bottom”) di quell’oceano colorato dipinto ancora dalla Benge sulla splendida copertina della ristampa del 1998, ma l’espressione “rock bottom” potrebbe alludere, letteralmente, anche al “fondo del rock” e fa riferimento ai versi “rocky bottom” del secondo brano.

La discesa negli abissi ha inizio con “Sea Song“, con un inquietante urlo di disperazione stemperato dalla dolcezza del pianoforte e dai vocalizzi di Robert in falsetti acquatici e nostalgici, che si intrecciano in un’evidente ricerca interiore ed espressiva. La voce e le tastiere di Wyatt si sovrappongono con l’accompagnamento al contrabbasso di Sinclair in quella che è stata unanimemente celebrata come una delle migliori canzoni di Wyatt: un superbo poema amoroso dominato dall’organo, dal synth e dal contrabbasso con alcuni grandi momenti strumentali, intervallati da intimi moti d’avanguardia del pianoforte. A Last Straw” accentua l’alone di mistero già fissato nella prima traccia, con l’accompagnamento della sezione ritmica di Hopper e Allan: anche questo brano inizia in modo simile, con l’organo ed il contrabbasso a costruire lentamente una culla musicale alla esile voce di Wyatt, in un jazz ventilato dal suono del pianoforte e del sintetizzatore. Il gemito di una chitarra eterea (suonata da Robert) si deposita poi sul fondo della traccia, che si conclude in seguito con una discesa a pianoforte, piuttosto toccante: “Into the water we’ll go head over heel. A head behind me buried deep in the sand“.

La stravagante “Little Red Riding Hood Hit the Road” è un brano più ritmato delle due tracce precedenti, contraddistinto dagli assoli sovraincisi della tromba surreale di Mongezi Feza e dall’energico lavoro percussivo su una piccola batteria dello stesso Wyatt, accompagnato anche da Richard Sinclair al basso. Questa canzone possiede un suono ipnotico, cementificato in seguito dall’aggiunta di strati di tastiera e dagli strumenti che raddoppiano fornendo uno sfondo più controverso ad un testo scritto in ospedale dopo l’incidente ed imparato a memoria per mancanza di qualsiasi registratore; tra passaggi apparentemente senza senso e linee serie e significative (“You’ve been so kind, I know I know. So why did I hurt you? I didn’t mean to hurt you but I’ll keep on trying, and I’m sure you will too“), tutto infine si scioglie con Ivor Cutler che parla col suo meraviglioso accento scozzese, dietro uno spesso muro sonoro di tromba, tastiera e basso.

I successivi due brani sono dedicati alla moglie Alfreda Benge: in “Alifib” il respiro di Wyatt detta inizialmente il tempo sostituendosi alla batteria, in un duetto ritmico con Hopper al basso e con la sua tastiera. Wyatt ripete “Alife” in un modo così disperato che può risultare fastidioso (e questa naturalmente, è l’intenzione), mentre il basso solista di Hopper si intensifica minuto dopo minuto, diventando sempre più invasivo, con Robert che inizia poi a cantare la sua dolce nenia Alifi my larder, I can’t forsake you or forsqueak you“. La dissonanza del pianoforte barricato dietro una melodia morbida ed un sax colto in spasmi di agonia, è qualcosa di indescrivibile. La seguente Alife” (Alife, l’anagramma del soprannome della Benge, Alfie) prosegue dritta dove “Alifib” si era interrotta, sempre sostenuta dal respiro di Wyatt ma con un testo più votato alla ricerca interiore, in un altro brano segnato da parole non-sense; il clarinetto di Windo si inserisce in un crescendo di free-jazz che sfuma per accompagnare la parte vocale della Benge, la quale risponde alla precedente dichiarazione di Wyatt (“Alife, my larder”: “Alife, la mia dispensa”) sostenendo di essere semplicemente la sua guardiana (“I’m not your larder, I’m Alife your guarder“). In tutto il brano il battito del bongo rimane costante (interpretato da Wyatt) con il solito pianoforte (sempre di Wyatt!) ed un superbo Gary Windo che brilla al sassofono, creando ancora una volta una sensazione oscura e disperata: nonostante il testo sia esattamente quello di “Alifib”, esso viene qui decantato in modo completamente diverso, in un tour de force puramente viscerale, colmo di disperazione, rabbia e sollievo. 

Ci riporta a galla “Little Red Robin Hood Hit the Road“, che inizia a tempo di marcia con la voce di Wyatt a cui poi si intreccia l’assolo di chitarra di Mike Oldfield, in un duetto che si smorzerà soltanto nella parte finale quando entrambi vengono attaccati da due mostri marini: la minacciosa viola di Frith e la spettrale voce di Cutler, che accompagnandosi con una concertina dà luogo ad una declamazione bizzarra su una talpa ed un porcospino che riflettono sarcasticamente sulla vita dell’uomo delle autostrade (“I reflect on the life of the Highwayman“), chiudendo il tutto con una misteriosa risata.

Nel 1974 Wyatt tornò in Italia, questa volta a Roma, già in sedia a rotelle, tenendo uno dei rarissimi concerti della sua carriera a piazza Navona per Stampa Alternativa, in nome della liberalizzazione delle droghe leggere (a sua insaputa!), dividendo il palco coi Gong e gli Henry Cow. Risultato: cinquantamila persone, tre milioni di lire di debiti e le accuse feroci della casa editrice ai “padroni della musica” per aver boicottato il tentativo di costruire uno “spazio libero di musica e politica” nel centro della città. Wyatt allora soffrì parecchio nell’accorgersi che nessun bar e nessun hotel era attrezzato per rendergli facile la nuova vita su quattro ruote, ma neanche il malessere di quei giorni riuscì a demoralizzarlo ed in nessuna delle sue opere parlò mai chiaramente dell’incidente, perchè, come dirà lui stesso, “trovo la tradizione dei cantautori che rovesciano le loro nevrosi in pubblico un tantino limitata”. Nonostante questo, Wyatt si tenne sempre alla larga dai concerti, sostenendo di aver gli incubi al pensiero di non riuscire ad intrattenere i suoi spettatori in maniera adeguata e di preferire operare nel suo “atelier” privato come fosse un pittore.

Con le sue composizioni originali, le tendenze jazz, il canto acutissimo (un “Jimmy Sommerville sotto valium” come si autodefinisce), il “senso del mondo” filtrato da Robert Graves e le sue simpatie marxiste, Robert Wyatt è un personaggio che o si ama o si odia. Ma sicuramente nessuno può non essere smosso dal capolavoro di Rock Bottom, un album progressive con un esame di coscienza, realizzato poco dopo la disgrazia che segnerà la sua vita per sempre: non importa se sei un appassionato della scena di Canterbury o se non hai familiarità con le precedenti collaborazioni di Robert Wyatt coi Soft Machine o i Matching Mole, poiché questo è uno di quei rari dischi in cui lo stato d’animo dell’artista supera ogni barriera, rendendolo più di un semplice album, ma una lucida e triste lezione di vita.

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