Pink Floyd – Animals

Se The Dark Side of the Moon e Wish You Were erano due concept-album costruiti come tali, Animals non lo era, almeno non nelle prime fasi: due delle cinque canzoni che lo compongono furono, infatti, in origine pensate proprio per essere parte di Wish You Were Here, per poi esser state tagliate fuori per un loro uso futuro; così, nel 1977 i Pink Floyd (soprattutto Waters) hanno trasformato queste due tracce in un nuovo concept-album basato sulla Fattoria degli Animali di Orwell che, a sua volta, si è evoluto in una delle più rappresentative immagini di copertina di sempre. 

Le registrazioni avvennero negli studi che i Pink Floyd avevano allestito all’interno di una vecchia chiesa di Londra (i Britannia Row) ed anche in questo disco il materiale venne proposto (se non imposto!) da Roger Waters, che concepì un album ruotante attorno al romanzo orwelliano, allegoria della nuova società portata dalla Rivoluzione russa. Per quanto concerne la celebre cover, essa venne ideata da Roger Waters, che elesse il maiale a simbolo discografico, suggerendo di farlo volare sopra alla Battersea Power Station, nonostante Storm Thorgerson insistette per un trucco grafico, piuttostanimalso che una fotografia reale: fu così che “Algie”, il maiale volante di 12 metri, venne commissionato alla Ballon Fabrik, una fabbrica tedesca che una volta costruiva i dirigibili Zeppelin. Il 2 dicembre 1976 iniziarono le riprese, coinvolgendo ben otto cameramen, un elicottero, undici fotografi ed un tiratore scelto, per abbattere il maiale se fosse sfuggito nel cielo londinese; quel giorno ci volle decisamente troppo tempo e così il manager riorganizzó il set per il mattino seguente, dimenticandosi però di avvisare il tiratore: all’indomani, un colpo di vento fece però volare indisturbato il maiale nel cielo mandando in tilt l’intera Londra, invadendo i corridoi aerei di Heathrow per poi atterrare nelle campagne di Canterbury, non riportando fortunatamente grossi danni. Soltanto il terzo giorno si riuscì a fotografare Algie in volo e, ironia della sorta, alla fine la copertina fu un fotomontaggio composto dal cielo del primo giorno ed il maiale in volo al terzo: una diversa tecnica avrebbe potuta essere impiegata per risparmiare tempo, denaro e ansia, ma avrebbe negato ai posteri una grande storia da tramandare.

L’album si apre ingannevolmente con “Pigs on the Wing (Part 1)“, con una romantica poesia dedicata da Waters alla moglie Carolyn, una canzone interamente acustica che funge da docile preludio al cinismo a venire, con una chitarra che rimanda fortemente a “Wish You Were Here”. Ma è soltanto un tranello iniziale per l‘epopea distruttiva di “Dogs“, originariamente intitolata “You Gotta Be Crazy” e scartata da Wish You Were Here: nei suoi 17 minuti sfaccettati vi è probabilmente il gruppo al suo meglio, nonostante le tensioni e le lotte intestine, che vengono sedate dalle tastiere superbe di Wright, donando alla traccia un fragilità rara che compensa lo spietato sproloquio di Waters, un vero e proprio atto d’accusa verso l’opportunismo dell’intera era industriale.
Nella sardonica “Pigs (Three Different Ones)” la politica prende prepotentemente posto sul proscenio, anche se senza l’orecchiabilità di una canzone come “Money”, forse anche per i ripetuti grugniti dei maiali che sembrano più interferire che arricchire la traccia, a mio parere; comunque sia, il risultato finale è una delle canzoni più apprezzate dei Pink Floyd, un brano che sembra anticipare The Wall tra i suoi ritmi funky e gli abusi del vocoder, mentre la Mary citata nel finale è Mary Whitehouse, attivista inglese ed accesa moralizzatrice dei costumi del suo popolo. La seguente Sheep” è un altro scarto di Wish You Were Here, che per fortuna cambiò il suo titolo originale (“Raving and Drooling” – delirando e sbavando!); stretta dalle stilizzazioni jazz del piano Rhodes di Wright che si stratificano su una pulsante linea di basso, in questo pezzo Waters lancia i suoi barbari moniti verso il suo pubblico, tra citazioni del celebre Salmo 23 (quello del buon Pastore) e le roventi minacce dei “vendicatori folli” sul finale. Ed in seguito a tale veemenza, non può che comparire un rasserenante arcobaleno dopo il temporale: la dolce Pigs on the Wing (Part 2)“, come la sua prima parte, sembra anch’essa essere stata inclusa per ammorbidire il colpo di questa realtà amara o per incoraggiare noi poveri mortali che, finché abbiamo qualcuno da amare e che ci ama, abbiamo l’illusione che vada tutto bene, coperti da un velo di Maya che ci fa ignorare i malesseri di questo triste e vecchio mondo.

Indubbiamente, Animals può essere visto come il primo passo verso la completa “watersizzazione” dei Pink Floyd di The Wall, piuttosto che come un vero e proprio lavoro di gruppo; se i testi di Roger erano divenuti uno dei maggiori punti di forza del gruppo dai tempi di Meddle, qui si conquistano un altro passo nell’egemonia della loro musica: il suo atteggiamento quasi di estrema sinistra, proprio quando il gruppo viene visto all’apice del suo successo multimilionario (nonostante avessero perso parecchio denaro per alcuni investimenti sbagliati) potrebbe aver alimentato l’oltraggiosa critica che descrisse l’album come semplicistico, demagogo ed opportunista. Tutti questi fattori endogeni contribuirono sicuramente al fallimento commerciale di Animals (nonostante le grosse vendite: tutto è relativo sulla scala dei Pink Floyd!), un mezzo flop dovuto anche a cause esogene, come l’esplosione del punk in quell’anno e la consecutiva decadenza del progressive. Un altro punto cruciale portato sul banco degli imputati dai suoi detrattori è il dato inconfutabile che l’album sia stato quasi interamente cantato da Waters: per tutti questi motivi, questo disco è stato spesso trascurato dai fan e dal pubblico in generale – oltre che dal gruppo stesso che, portato a termine il dovuto tour promozionale, non suonerà più nessuna delle sue tracce (un dato ancora più strano se si pensa che due dei suoi brani facevano parte regolare dei loro spettacolo prima del rilascio dell’album), anche se sarà ancora utilizzato il maiale volante per la maggior parte dei concerti. Il celebre “incidente” dello sputo di Waters ad un fan arrivò proprio durante il tour di “In The Flesh” per promuovere Animals (precisamente il 6 luglio, a Montreal): nelle interviste, Roger riferì tutta la sua frustrazione per il “rito senza senso” degli spettacoli dal vivo, dove le sue canzoni – intensamente personali – venivano trattate con mancanza di rispetto e superficialità, coperte da urla e fischi, e fu così che durante quelle date concepì l’idea di costruire un muro ideale tra sé ed il pubblico (vi suona familiare?).

Tornando più puramente ad Animals, si può scorgere al suo interno un intelligente legame concettuale che si basa sull’arrivismo dell’uomo nella cultura moderna: l’élite avida di finanziari opportunisti (i cani), le potenze politiche ignoranti (i maiali) e le maggioranze ignare di esser complici ed artefici del loro stesso vittimismo (le pecore). L’articolazione di questa “masseria” odierna è fondata su un regime orwelliano che disumanizza gli esseri umani e li trasforma in semplici ingranaggi di un macchinario omologante; Waters si mette in una posizione “oggettiva”, come un estraneo che raffigura lucidamente le vie del mondo, tra cani che ululano e pecore belanti nell’era thatcheriana, ma il suo messaggio senza speranza nasconde anche un appunto positivo: il suo sottotesto è un appello diretto alla coscienza, che va inteso e sviluppato da chi lo ascolta. A mio modo di vedere, lo scopo principale di questo disco è quello di piantare un seme di disagio nell’animo di chi ascolta ma spetta a noi lasciarlo lì come una vuota denuncia che fa prurito come una vecchia cicatrice, od il volerlo portarlo al livello successivo, facendo fiorire una critica accesa e costruttiva verso la realtà che ci circonda. Un messaggio ancora più acuto al giorno nostro, dove anche le guerre si fanno anche sui social network, dove la versione ufficiale viene sempre data per reale, ma non lo è mai

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