Can – Ege Bamyasi

Ok ok… La Germania sarà sempre famosa per i wurstel, la birra e l’uomo coi baffetti… Ma andiamo oltre gli stereotipi e buttiamoci a capofitto nel krautrock, dandole l’onore che si merita!

A proposito dei Can, il giornalista David Stubbs nelle sue note di copertina per la ristampa in CD scrisse, a ragione, che è “il suono di una band assolutamente a proprio agio con se stessa, con tutti i suoi vari elementi fusi insieme come da un processo di telecinesi collettiva. Una band che poteva andare dove voleva, quando ne aveva voglia. La descrizione è centratissima!

Ege Bamyasi è il quarto album in studio per la band tedesca, dopo il celeberrimo Tago Mago. La copertina, dall’aspetto decisamente d’editoria culinaria, rappresenta una lattina di gombi ed il titolo (in turco) rimanda proprio a questa verdura esotica; il nome del gruppo, Can, significa in inglese “lattina” (ma anche “anima” in turco e “sentimento” in giapponese… inoltre può rimandare all’ambiguo acronimo di “Comunismo Anarchia Nichilismo”). Il gioco di parole pare abbastanza chiaro: è una copertina che fa presagire la merda d’artista contenuta all’interno (mi perdoni Piero Manzoni, ma la similitudine era quantomeno necessaria!).

Veniamo  ora alle presentazioni. In questo disco troviamo i due ex alunni di Stockhausen e fondatori della band: Holger Czukay (ex insegnante di musica) al basso e Irmin Schmidt all’organo e al piano, secondo evenienza. A completare la formazione il più giovane Michael Karoli alla chitarra e al shehnai (oboe indiano), il jazzista Jaki Liebezeit alla batteria (“half-man, half machine“, come lo avevano soprannominato i suoi compagni) e infine l’inimitabile Damo Suzuki alla voce… Sì, lo so, probabilmente vi starete chiedendo, in una domanda che suona come l’intro di una barzelletta scontata e vagamente razzista: cosa ci fa un giapponese con dei tedeschi nel 1972? Ebbene fu un coinvolgimento improvvisato; negli anni Sessanta Damo approdò in Europa dove suonava per le strade e a Monaco fu notato per caso. Dopo che il cantante Mooney lasciò i Can sotto consiglio insistente del suo psicologo (il gruppo sarebbe stato pericoloso per la sua sanità mentale!), il giapponese fu ingaggiato da Czukay e Schmidt mentre si esibiva fuori da un bar, e cantó con loro quella stessa sera… Altro che i talent show di oggi!

Rispetto al precedente capolavoro, Ege Bamyasi è sicuramente un album più accessibile: la lunghezza delle tracce è ridotta e le sonorità sono più votate alla “canzone” che alla grande epopea krautrock. Ma questa presunta facilità d’ascolto non lo rende affatto un disco banale.

Rilasciato nel 1972 sotto etichetta United Artist, l’album ha la sua imperiale cavatina con “Pinch“, una jam session che ai più farà dire: altro che un allontanamento da Tago Mago!  In verità vi accorgete subito che è tutto qui abbastanza contenuto e piacevole e, nonostante si faccia fatica a trovare una melodia, suona come se ogni cosa fosse nel suo posto, in mezzo al synth soffocante di Irmin Schmidt, alle percussioni funky di Liebezeit  e soprattutto alla voce di Demo, che canta come un Iggy Pop giapponese (pochi anni dopo questo disco lascerà la musica per i Testimoni di Geova. Il mondo è un posto davvero strano!).

Dopo un antipasto ipercalorico è in arrivo la rinfrescante “Sing Swan Song” coi suoi effetti Foley, una dolcissima e rassegnata melodia: “Il canto del cigno”, d’altronde, deriva  dalla mitologia greca, un’espressione che sancisce l’ultimo lavoro prima del declino dell’artista (negli anni è finito per diventare un topos – forse i più celebri componimenti ispirati sono quelli di Schubert). “One More Night” è un pezzo facile da digerire che offre un po’ di respiro prima della tensione ma il cammino verso il letto è ancora lungo: dietro la porta troviamo infatti “Vitamic C“, un brano funk-psichedelico pericolante in cui Damo dà il meglio di sè nel reiterato ritornello “Hey you, You’re losing, you’re losing, you’re losing, you’re losing your vitamin C!”. In “Soup ritroviamo invece un’altra jam session con un ritorno ai suoni più puri del Krautrock, con una sezione, in cui si rasenta pericolosamente la titanica “Hallelulwah” di Tago Mago, ma i suoi 10 minuti la rendono una creatura tutto sommato d’indole domestica e vaccinata.

Le ultime due tracce sono un piacevole dolce: “I’m so Green“, una pop lillupuziano dal grande impatto, e la celebre “Spoon“, una hit che non sa di hit (300 mila le copie vendute grazie anche al telefilm poliziesco “Das Messer” che le diede una discreta fama in patria). Si tratta di una canzone intrisa di una melodia distinta ed infestante (degno di lode Jaki Liebezeit sopra tutti) ed un testo ermetico e impenetrabile. Una curiosità: secondo le note di copertina ha permesso alla band di aggiornare il loro studio e ha dato molto più tempo a Schmidt e Suzuki di giocare a scacchi (grande passione).

Pur di più facile digestione rispetto ai precedenti lavori, rimane un disco dal sapore di un ristorante stellato Michelin (e le stesse pietanze si possono assaporare nel seguente Future Days): una perfetta combinazione di ingredienti  pop, rock, jazz, orientali e psichedelici in uno stufato follemente eclettico e saporito.                

Buon appetito!

Precedente The Nice - The Nice Successivo Banco del Mutuo Soccorso - Io Sono Nato Libero