Pink Floyd – The Division Bell

In a world of magnets and miracles, our thoughts strayed constantly and without boundary… the ringing of the division bell had begun!“

La Division Bell, per chi non lo sapesse, è la campana che nel Parlamento inglese richiama tutti ai propri posti in prossimità delle votazioni da effettuare – il titolo, pescato da un verso di “High hopes“, venne stabilito da un amico di Gilmour, lo scrittore Douglas Adams (che in premio salirà sul palco dell’Earls Court il 28 ottobre 1994) dato che non si riusciva a trovare un accordo fra Gilmour (“Pow Wow”) e Mason (“Down to Earth”).
La campana, che in questa sede viene rintoccata, echeggia la fine di un’avventura leggendaria, quella dei Pink Floyd, che ci lasciano con un ultimo disco di inediti il cui tema portante non poteva che essere la comunicazione – o, meglio, le conseguenze della mancanza di essa.

Storm Thorgerson (il disegnatore di The Dark Side of the Moon) si occupò della grafica di copertina, ispirandosi al libro del matematico Norbert Wiener “The Human Use of Human Beings”, dipingendo due grandi teste metalliche (i moai) in un campo situato davanti alla cattedrale gotica di Ely, mentre la nuova compagna di Gilmour, Polly Samson, contribuì nei testi, con Anthony Moore e Nick Laird – Crowes.

E’ il 1985 quando Roger Waters lascia la band. Prima senza Barrett, poi privi di Waters – la domanda sorge spontanea: cosa ne rimane dei Pink Floyd? Secondo lo stesso Gilmour “I Floyd non hanno più molto da dire, ma continuano a dirlo nel migliore dei modi possibili”. Questo album, edito dalla EMI nel 1994, secondo me eccessivamente sottovalutato da critici e presunti fan (relegato perchè “troppo commerciale”), emana un suono sottile, spontaneo, sobrio senza piombare nello scialbo o nel convenzionale (lo si evince nel rarefatto brano strumentale d’apertura “Cluster one“), merito anche dei numerosi ospiti più o meno fissi (Guy Pratt, Jon Carin, Dick Parry, Tim Renwick e Bob Ezrin). In fondo, c’è da ricordare agli scettici che se i Pink Floyd hanno impresso il loro bollo nella storia della musica è anche per merito dei superstiti David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright!
In “What do you want from me” la stratocaster di Gilmour urla più del suo padrone – si tratta di una canzone degna dello status di Pink Floyd: liricamente rabbiosa, tecnicamente ben vestita e che, tra strilli chitarristici ed energici cori, si libbra sopra diversi generi senza mai trovar il tempo di planare. La morbida “Poles apart” presenta invece una duplice velata dedica: la prima parte spinge verso l’indimenticato Syd Barrett (“did you know it was all going to go so wrong for you and did you see it was all going to be so right for me?“) mentre la seconda è indirizzata a Roger Waters (“hey you, did you ever realise what you’d become?“). Mason detta inizialmente un tempo a tratti cupo, schiacciante come il lungo interludio che spezza la canzone in due sezioni letteralmente agli antipodi, per poi sfociare in una melodia carica e veloce sovrastata dall’ennesimo apprezzabile assolo di Gilmour.

L’intimissima jam “Marooned, suonata dal vivo solo 3 volte, vale da sola il prezzo del disco, mentre l’accordo finale la collega direttamente a “A great day for freedom, inizialmente intitolata “In shades of grey“, che tratta della caduta dei muri e di un’effimera libertà che si trasforma in genocidio.
Uno dei momenti più deliziosi del disco è “Wearing the inside out“, avvolta vocalmente da Wright e che segna il gradito ritorno del sassofonista Dick Parry in una melodia jazz scalfita da una storia d’emarginazione e malessere, che non poteva che esser narrata dalla delicatissima voce di Richard. La mistica “Keep talking“, particolare per la presenza della voce elettronica di Stephen Hawking, è una canzone sussurrata e lievemente ansimante: riassunto perfetto dell’album è la formula “all we need to do is make sure we keep talking“; questo tema dell’incomunicabilità sarà proseguito nelle docile “Lost for words” (in cui espliciti sono i riferimenti a Waters) dove viene lavato via l’affanno precedente, svelando un recondito accordo con sè stessi in chiave quasi acustica (“so I open my door to my enemies and I ask ‘could we wipe the slate clean?“).
La splendida “High hopes“, prima canzone scritta per l’album ma ultima registrata, è un capitolo assorto ed indimenticabile sulla gioventù che svanisce – con lei si dileguano anche i Pink Floyd, in un epilogante forever and ever a chiudere per sempre la loro storica saga.

Gli addii non sono mai facili, certo, ma credo che questo album sia stato ingiustamente sottovalutato.

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