Aardvark – Aardvark

Inizialmente con Paul Kossoff e Simon Kirke (che avrebbero trovato più fama e denari nei Free), gli Aardvark pubblicarono il loro unico album nel 1970, con il poco sostegno promozionale dalla Decca a cui fece seguito l’assenza di recensioni dalle varie riviste musicali inglesi dell’epoca. Il bassista Stan Aldous, il batterista Frank Clark, il tastierista Steve Milliner (precedentemente nei Black Cat Bones) ed il vocalist Dave Skillin entrarono in sala di registrazione all’inizio del nuovo decennio e, sotto l’ala materna della produzione di David Hitchcock, sfornarono il loro esordio omonimo che venne poi rilasciato dalla Decca Nova sia in mono che in stereo (e fu curiosamente l’ultimo disco prestato a questa doppia soluzione dell’etichetta). Data la loro breve storia, molto poco si conosce della band, tuttavia esiste un curioso aneddotoAardvark+Aardvark+-+1st+598706: con tutta probabilità il titolo originale (Put It In Your Pipe And Smoke It) venne rivisitato a causa dei suoi evidenti riferimenti alla droga, mentre la title track venne ridotta a “Put It In Your Pipe” per evitare ogni pericolosa allusione. Con una copertina che sembra una pioneristica promozione di un videogioco medievale e che non rivela granchè del gruppo (ad eccezione del loro “animale-guida”, l’oritteropo del nome!), lo stile degli Aardvark è fondamentalmente un heavy-rock progressivo, completamente inzuppato nei suoni delle tastiere, mentre spicca l’inedita assenza della chitarra nel muro sonoro della band.

Steve Milliner col suo organo Hammond inaugura con un forte riff la greve nenia di “Copper Sunset“, con una pesantezza generale che può essere comparata soltanto allo stile di Jon Lord, mentre le due seguenti canzoni continuano cambiando binario ma non la destinazione – la prima, la docile “Very Nice Of You To Call“, è estremamente orecchiabile, grazie soprattutto al delicato intreccio del pianoforte e delle tastiere; d’altrocanto, l’uggiosa Many Things To Do” possiede un verso opprimente che si ripete monotono attraverso l’intera traccia, con Frank Clark che viene poi alla ribalta con le sue percussioni, anche se la musica tende a cadere all’interno dei clichè musicali delle band emerse proprio in quegli anni, dagli Atomic Rooster ai Deep Purple.
Molto interessante l’irrequieta “The Greencap” con la voce sottoposta al fuzz à la “21st Century Schizoid Man”, anche se l’organo, quando lasciato solo, porta faticamene sulle spalle il peso di questo ombroso musical prog-rock. Successivamente, I Can’t Stop” è il capitolo più esilarante, che anticipa in qualche modo il suono degli Uriah Heep, anche a causa delle sue soluzioni ritmiche incespicanti e dei suoi colpi di scena corali ed umoristici, raccogliendo un distintivo riff R&B a seguito ad una lunga introduzione organistica, con Skillin che dimostra ancora una volta le sue peculiari doti vocali. Questo stile blues sembra soddisfare realmente la configurazione musicale degli Aardvark, con l’inserimento del pianoforte come strumento solista che crea una piacevole pausa nella monotonia del suono dell’Hammond.
Nel coro da stadio maligno di “The Outing – Yes” le sostanze psichedeliche iniziano a prendere il sopravvento, affogando l’incauto ascoltatore in un oceano di caos tonale: si tratta della melodia più lunga dell’album (9 minuti) che unisce un incessante organo Hammond con le voci armonizzate in maniera quasi canterburiana, mentre una crescente linea di basso si trasforma sul finale in una sezione strumentale delirante ma piuttosto ambiziosa.
In seguito, troviamo la più debole e sommessa Once Upon A Hill“, dove Milliner sostituisce la tastiera con un registratore fino agli ultimi istanti, quando strappa qualche battuta col suo malvagio organo, finendo con l’accanirsi sulla struttura medievale e folk della canzone, un funerale sonoro che conduce al capolinea della jam-session Put That In Your Pipe“, una selvaggia cavalcata strumentale che ispira alcune domande stuzzicanti su quello che avrebbero potuto divenire gli Aardvark se non si fossero arresi dinanzi alla storia. Questo brano di chiusura riaccende la fiamma delle tracce iniziali dell’album con un ritmo veloce di organo e basso che persiste incessantemente, anche se il suo difetto principale (qualcosa che affligge molte tracce dell’album, in realtà) è il suo trascinarsi per troppo tempo. 

L’approccio degli Aardvark, piuttosto che nella tradizione classica, si radica nei suoni del jazz e nell’R&B: l‘album ha i suoi momenti interessanti e dovrebbe essere di notevole interesse per quei fan che sono particolarmente innamorati dell’organo Hammond come strumento dominante, mentre i confronti sono davvero difficili da fare, ma mi sento di raccomandare questo disco a tutti coloro che apprezzano i lavori dei Greenslade, dei Black Widow e degli Atomic Rooster, ma anche ai nostalgici di Canterbury, in quanto gli Aardvark riescono a coniugare in maniera grezza le soluzioni melodiche dei Caravan coi virtuosismi dei primi Soft Machine.

Colgo infine l’occasione per ricordare come questo album non sia mai stato rilasciato su CD in Europa fino al 2005, ma era disponibile soltanto sull’etichetta coreana Si-Wan. Ok che nessuno è mai profeta in patria, ma questi Aardvark sembrano essere proprio stati limonati appassionatamente dalla sfortuna!

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